L’America divisa, nella realtà e nel film. Divisa negli ideali, nelle disuguaglianze, nelle attese. Barbara Cupisti, regista di My America, parte da tre macro categorie per ricordarci quanto il sogno americano sia rimasto, per molti, solo un’immagine riflessa e di come, per molti altri, sia diventato il peggior incubo. Armi, povertà, immigrazione: questi sono i temi da cui si parte per parlare, in realtà, di futuro e di speranza, di iniziativa e obiettivi comuni. Non si tratta solo di quello che non va o di quello che non si ha, ma di cosa si può fare e di cosa si può fare insieme per sopravvivere a realtà che - forse conosciute, forse no - più esseri umani di quelli che immaginiamo vivono e subiscono.
E così, dal dolore nasce unione, nasce condivisione, nasce comprensione. Questo è quello che trasferisce il documentario/film di Cupisti: uno spunto positivo, partendo da notizie e realtà negative che potrebbero sembrare insopportabili, alienanti; che, a tratti, ti fanno osservare le immagini col respiro sospeso, ma che offrono la possibilità di unire le forze.
Per avviare piccole rivoluzioni che, probabilmente, non cambieranno il mondo, ma aiuteranno a sopportare il dolore e a trasferire, come se fosse una staffetta, il peso del coraggio nelle generazioni che si susseguiranno.
"Put the guns down": questo è lo slogan che riecheggia nella prima parte, ponendo l’accento sulla presenza, in America, di più armi che persone.
Viene chiarito come l’arma non sia solo un oggetto morto (è vivo ma produce morte), un ingranaggio di elementi ferrosi, ma che si tratta, piuttosto, di una cultura: la cultura delle armi è giustificata dal passato, dagli intrecci storici di questo paese che vede nell’arma un senso di protezione, in cui riporre la propria fiducia. Un senso di protezione che, forse, protegge uno, per disarmare e lasciare indifesi tanti altri. Questo è un po’ il messaggio che ci ricordano film come Bowling a Columbine di Michael Moore e Elephant di Gus Van Sant. Film lontani nel tempo, ma vicini negli intenti, nella voglia di curare un paese che si arma con leggerezza, ma che non si arma della voglia di capirsi.
In questo scenario si inseriscono figure di giovani e giovanissimi, la più grande forza del paese, del mondo, ma anche la più grande debolezza. Sono loro i veri resilienti, che non solo prendono posizioni nette e lottano per portare avanti valori, ideali ma che, nello stesso tempo, fronteggiano tutti quegli adulti che diventano i reali colpevoli: tutti quegli adulti che non vedono e non vogliono vedere quello che accade intorno a loro e, a volte, osteggiano i giovani impegnati che lottano per tutti quegli assenti.
In ogni parte del documentario si impara a sviluppare una qualità necessaria per combattere lotte diverse ma pur sempre fatte da esseri umani per altri esseri umani: se nella prima parte si parla di resilienza, nella seconda si punta sulla compassione
Questa qualità presuppone un’idea chiara: quando facciamo qualcosa per alleviare le sofferenze altrui, ci sentiamo più felici, più ottimisti. Questo rassicura rispetto al problema americano degli homeless: anche che qui c’è uno slogan, che guida associazioni e persone: “Share a meal”. Che non è solo condivisione di un pasto, ma empatia, condivisione di una condizione. Quindi il pasto non è solo cibo ma è restituzione della dignità, che non si è persa solo perché si è persa una casa e degli oggetti; dignità che ognuno di noi si porta dentro e che ci arricchisce anche se non abbiamo più nulla. Per questo non vediamo senzatetto fare le code per mangiare: perché non si tratta di aiutarsi mettendosi su due livelli diversi, ma si tratta di trasferire quella importante qualità che nobilita, la compassione, che porta a dare per essere felici anche noi. Il livello viene pareggiato anche per il fatto che la condizione e l’esperienza è la stessa: il cibo è lo stesso per tutti, per i volontari e per coloro che lo ricevono. Questa esperienza non ha prezzo, non è monetizzata ma interiorizzata. E migliora perché, come sostengono e dimostrano le persone impegnate, «se vuoi stare bene devi fare qualcosa per gli altri». L’idea è proprio lo scambio reciproco: dare qualcosa di concreto in cambio di felicità.
La domanda sorge spontanea: chi ci guadagna veramente? Forse tutti, ma sicuramente nessuno perde più di quello che ha già perso.
L’ultima qualità che ci viene trasferita è la giustizia: che nel contesto dell’immigrazione è quasi scomparsa e che ci ricorda, anche attraverso le immagini di casa nostra, che la causa non riguarda un Paese, ma le persone. L’umanità in cerca altra umanità.
Il deserto è l’ambiente che ospita (il meno ospitale per clima e mancanza di acqua) questo sogno, questo progetto di vita che si raggiunge, molte volte, attraverso il sacrificio stesso. Anche qui ritroviamo un filo rosso che ci fa seguire delle tracce, quasi concrete; quelle impronte lasciate nel cammino lungo e tortuoso che non sempre porta a un altro cammino ma che, forse, è comunque l’unica presenza di un futuro immaginato. Il senso di questo percorso è chiaro: decidere dove smettere di camminare, se nel paese di provenienza o se in quello di destino. L’importante è scegliere, sia di provarci sia di restare. Chi resta convive e combatte con un ambiente ostile e pericoloso dove la vita è precaria e instabile. Chi parte sceglie o, almeno, pensa di scegliere, una vita più sicura in un paese che, nell’immaginario comune, non abbandona ma accoglie e offre protezione.
Queste sono le aspettative di quelle persone che hanno lasciato le loro impronte e nient’altro in quel deserto maledetto, che non permette di scegliere ma che sceglie per loro. Su questa scia, le associazioni di volontari percorrono lo stesso cammino delle persone che non ce l’hanno fatta, per lasciare viveri a coloro che ci riproveranno, perché qualcuno ci riproverà. Ecco il loro senso di giustizia.
Tutto questo lascia in noi spettatori un forte senso di impotenza ma, allo stesso tempo, di partecipazione. Ci insegna che forse la vera soluzione è la combinazione e la fusione di quegli elementi positivi che le persone hanno per natura o che fanno emergere a seguito del dolore di vivere, qualsiasi esso sia, da qualsiasi cosa sia stato causato.
Per mostrare e imparare (perché molte volte si tratta di imparare) resilienza, compassione e giustizia non è necessario creare le condizioni ideali: morte, fame e di nuovo morte. Dobbiamo riconoscere la nostra piccolezza: nell’essere umano convive la voglia di non guardarsi intorno con quella di rivoluzionare ciò che ci circonda. Per questo la vera rivoluzione è scegliere, scegliere di fare qualcosa, sempre, che porti forse a tutto e forse a niente. Scegliere di camminare, di muoverci verso una meta che ci faccia sentire tutti partecipi e uniti, a volte, nello stesso dolore ma, anche, nella stessa speranza. Perché se non scegliamo abbiamo scelto comunque.
Genere: documentario
Titolo originale: My America
Paese, Anno: Italia, 2020
Tipologia: documentario
Regia: Barbara Cupisti
Sceneggiatura: Barbara Cupisti
Montaggio: Francesca Mor
Fotografia: Antonello Sarao
Colonna sonora: Tommaso Gimignani
Produzione: Clipper Media, Rai Cinema
Durata: 96'