Orfana e accudita dalla zia acquisita, Jane (Mia Wasikowska) cresce in un ambiente famigliare poco propenso a tollerare la sua schiettezza fuori dagli schemi per l’ipocrita morale vittoriana. Dopo esser stata mandata in un collegio correttivo, l’indipendenza e l’integerrima forza d’animo della ragazza si rafforzano ulteriormente senza essere scalfite, acquisendo anzi quelle competenze formative che le permetteranno di diventare istitutrice. Ormai ragazza nel pieno della maturità, si apre per Jane un futuro da governante nel castello di un ricco proprietario terriero inglese (Michael Fassbender). Lo scontro con il mondo esterno è l’occasione per scoprire l’autenticità di emozioni latenti e sentimenti che sembravano sopiti, nel bene e nel male. Siamo di fronte all’ennesima trasposizione su grande schermo del celebre romanzo di Charlotte Brontë, che deve in parte la sua fama proprio al notevole sfruttamento dell’opera in campo cinematografico. Quasi proibitivo non tornare indietro alla Jane Eyre di Franco Zeffirelli, magnificamente riuscito nel tentativo ambizioso di conferire un’opacità e un realismo cristallino nei suoi ritmi cadenzati. Se la macchina da presa passiva e il montaggio lineare avevano rappresentato l’alchimia vincente promossa dal regista toscano da una parte, conferendo un profumo risorgimentale a dir poco mostruoso per l’alta fedeltà, il semi esordiente Cary Fukunaga ha preferito imporre un taglio piuttosto moderno alla pellicola, tramite una struttura più intrecciata nella prima parte e col ricorso frequente ad effetti visivi che aiutano a palesare il tormento dei protagonisti; con tutti i pregi e i difetti che ne conseguono. La scelta di “sporcare” la tinta del contesto antico in cui si svolgono i fatti può essere interpretata - come probabile - un voler prendere le distanze da una formula che già altri in passato hanno reso inarrivabile, sperimentando così un’impostazione differenziata per dare un volto innovativo ad un materiale abusato, ma sempre affascinante - soprattutto per i cineasti amanti del genere letterario classico. Importante è stata comunque la decisione di non stravolgere troppo le vicende, mantenendo anzi una forte pedissequità al romanzo nel volgere delle scene. I rischi penalizzanti di lavorare su un soggetto così conosciuto e perfezionato nel tempo erano certamente noti al novello regista americano, e va precisato innanzitutto il ruolo sperimentale del film. Mostrare un coraggio da innovatori – quantomeno nell’involucro – non è certo cosa da poco, specie se giovani e con poca esperienza, in una congiuntura sfavorevole per investimenti e scommesse troppo ardimentose. La scommessa di Fukunaga può dirsi parzialmente vinta viste le premesse, ma non può trascendere da un’analisi a tutto tondo che ammortizzi i peccati di gioventù e le mancanze rispetto ai suoi predecessori più illustri. In particolare, fa storcere il naso la presenza di due attori protagonisti forse troppo giovani per le rispettive parti, seppur ampiamente sufficienti nel trasmettere lo spirito autentico del libro. Risulta un po’ fiacco anche l’avvicinamento al climax finale, forse a causa dall’esiguità imposta dai limiti di budget. Nel complesso, non va però sminuita l’ottima calibrazione delle tecniche di ripresa più moderne: sulla carta, in molti avrebbero bocciato quello che alla lunga invece di confondere si è rivelato un piacevole esempio di restyling.