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The Zombie Diaries

03/12/2011 12:00

Luca Lombardini

Recensione Film,

The Zombie Diaries

Tre mockumentary documentano altrettanti momenti dell'epidemia che riporta in vita i morti...

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Tre mockumentary documentano altrettanti momenti dell'epidemia che riporta in vita i morti. The Outbreak, The Scavengers e The Survivors sono quel che resta dell'implosione inglese.


Michael Bartlett e Kevin Gates sono due esordienti, che però hanno studiato: eccome se lo hanno fatto. Tanto che il loro The Zombie Diaries (conosciuto anche con il titolo di World of the Dead) conquista fin dalla prima visione, con semplicità d'efficacia e quindi d'impatto che è diretta conseguenza di un perfetto contrappeso tra esercizio di stile e personalità d'intuizione. I modelli di riferimento sono numerosi e validi, altrettanti i meriti riconducibili esclusivamente alla farina nel sacco dei due autori. The Blair Witch Project e Diary of the Dead si palesano fin da subito come fari nella notte, mentre una volta sì e l'altra pure tornano alla memoria alcuni momenti di puro british style: diretta conseguenza non solo dell'antesignano 28 giorni dopo o del cronolgicamente più vicino Rec, ma addirittura figli dello Shane Meadows più crudo. L'impalcatura è quella del mockumentary, finto documentario diretto discendente de La guerra dei mondi letto da Orson Welles, genere che vede una certa predisposizione nell'essere sfruttato e/o abusato in pellicole a base di ritornati in vita. Ne consegue che il fascino di The Zombie Diaries risieda prevalentemente nella soggettiva prospettica alla quale è sottoposto lo spettatore, postazione videoludica travasata nella settima arte, funzionale e empatica proprio perché grezza e soggetta al rischio dell'interruzione coatta o al fuoricampo costretto da una mano inesperta: nulla di più falso e costruito, ciò nonostante dannatamente efficace se quel che conta è il feedback emozionale di chi guarda. Il quale soffre, si spaventa, quasi sfiora la pressione sul grilletto strizzando l'occhio a uno “sparatutto”.


The Zombie Diares è cinema dell'essenza, sostanza in sottrazione, solido scheletro asciugato del volume, scevro di orpelli e ghirigori, lungometraggio che procede dritto fino al punto di non ritorno: eppure classico nel suo andamento circolare, quasi teatrale nella sua tripartizione in “atti”, calcolata sull'incrocio dei superstiti divisi e in parte riuniti nell'incastrarsi di The outbreak (la diffusione del virus), The scavengers (i primi tentativi di procurarsi viveri e munizioni) e The survivors (superstiti, barricati nel fortino di una fattoria). Ovunque regna un clima d'incredulo pessimismo, distruzione verticale, progressiva perdita di qualunque cosa si desse un tempo per scontata: casa, famiglia, affetti, lavoro, salute, proprietà privata. Un castigo divino mascherato da rivoluzione: in una sola espressione, la fine del mondo. Fin qui la tradizione omaggiata, il compitino che si eleva a compito ben svolto, senza incertezze o sbavature. Ma Bartlett e Gates ci mettono decisamente del loro per strappare un voto alto: vedere per credere quali gesta riservano a Russel Jones (alias Goke) nel finale. Da cinema politico qual è sempre stato, il zombie-movie si trasforma in monito sociologico: i morti viventi sono lo specchietto per le allodole, qui si parla di vivi morenti.


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