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Babycall

24/08/2012 10:00

Martina Calcabrini

Recensione Film,

Babycall

Dopo aver raggiunto il successo con la black comedy Posta celere e confermato le proprie doti registiche con Next door, il norvegese Pal Sletaune valica i conf

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Dopo aver raggiunto il successo con la black comedy Posta celere e confermato le proprie doti registiche con Next door, il norvegese Pal Sletaune valica i confini nordeuropei con il thriller psicologico Babycall, presentato in anteprima al Festival Internazionale del Film di Roma.


Anna è una donna malinconica e riservata che, per fuggire da un marito violento, si trasferisce in un posto segreto insieme al figlio Anders. Temendo che l’uomo possa trovarli e aggredirli nuovamente, Anna compra un babycall per sentirsi al sicuro anche di notte. L’apparecchio, però, comincia a trasmettere strani gemiti e urla di dolore che provengono, con molta probabilità, da un appartamento vicino al loro. Mentre rincorre Anders nel parcheggio del condominio, la donna vede un uomo che trasporta un cadavere ed è convinta che si tratti della vittima che aveva sentito urlare attraverso il babycall.


Una Oslo fredda e glaciale ospita la vicenda di una madre che nasconde la propria sofferenza per non rischiare di perdere suo figlio. Minacciata dagli avvocati del marito, accusata di negligenza dai professori, derisa da poliziotti che non comprendono le sue ansie, Anna è una donna completamente sola. Impaurita, terrorizzata, alienata da un mondo che non la vuole ospitare, la donna conosce Hegle, un uomo altrettanto solo e introverso, a cui confida i propri problemi e da cui trae, almeno apparentemente, un po’ di conforto. Consapevole di non riuscire a distinguere la realtà dall’immaginazione e, soprattutto, i fantasmi del passato dalle angosce del presente, Anna rischia di impazzire. Una bravissima Noomi Rapace esterna la propria depressione e l'ineluttabile emarginazione, attraverso gli occhi disperati di una madre che vive soltanto per proteggere suo figlio. Ricollegandosi ai grandi film di genere come Il sesto senso e The Others, Sletaune confeziona un thriller algido e distaccato dalle tinte macabre e funeree. Grazie a lenti movimenti di macchina, a inquadrature claustrofobiche, a (im)percettibili piani sequenza e a un montaggio, spesso, serrato, il regista confonde lo spettatore e non gli permettere di rimanere estraneo alla vicenda. Attraverso il punto di vista della donna, il disvelamento della verità si lascia attendere ansiosamente fino al colpo di scena finale. Le premesse però non sono sufficienti a far quadrare i conti. Eliminando quasi completamente il labile confine tra realtà e finzione, tra sogni e incubi e tra reale e soprannaturale, Sletaune si perde nei labirinti della sua stessa opera. Conturbanti corridoi, appartamenti stranianti, strade deserte, volti perennemente contrariati e spettri reali o apparenti, non fanno altro che accrescere l’acredine dei personaggi nei confronti di una violenza domestica che non può essere estirpata perché matrice stessa delle loro storie.


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