I giorni grigi dell’assicuratore Mickey Prohaska (Greg Kinnear), divorziato dalla moglie e alle prese con un lavoro che di certo non lo entusiasma, si susseguono uno uguale all’altro in un piccolo paese montano del Wisconsin che sembra perfetto per ospitare al suo interno il gelo dell’anonimato impiegatizio. Insieme al socio Bob Egan incappa nell’agricoltore Gorvy Hauer (Alan Arkin), possessore e custode geloso di un violino di grande valore, al quale cerca di appioppare una polizza sulla vita. Quella che sembra solo un’azione di prammatica si rivelerà però ben presto foriera di tensione e frustrazione, complice la totale riluttanza del coriaceo Arkin, anziano recalcitrante e scorbutico che non si piegherà facilmente ai tentativi di persuasione. Thin Ice – Tre uomini e una truffa è un thriller di atmosfere raggelate e uomini qualunque che non può non richiamare alla memoria il glorioso precedente rappresentato da Fargo, assoluta pietra angolare del genere firmata dai fratelli Coen. Un modello aureo e forse insuperabile che viene continuamente rievocato nel film di Jill Sprecher, i cui rimandi al mondo cinematografico dei fratelli di Minneapolis travalicano perfino la dimensione spaziale del grande freddo per tirare in ballo tappeti di lebowskiana memoria e riferimenti citazionistici d’ordinanza. Una tendenza a dir poco controproducente e masochistica che fa tornare alla mente fin troppo spesso i registi di A serious man amplificando ulteriormente la modestia di Thin Ice: non bastano impiegatucci di quart’ordine e le facce buffe e intristite di inetti vessati dalla sorte e instupiditi dal corso degli eventi per inscenare parabole magistrali sui meccanismi neri della provincia americana, tanto più se al posto di una maschera impagabile come William H. Macy ci ritroviamo un Greg Kinnear qualunque, senza dubbio un ottimo caratterista ma forse non del tutto all’altezza per sostenere sulle proprie spalle un film intero. Immerso in uno scenario geografico in cui “esistono solo due stagioni” e la seconda verrebbe perfino da metterla in dubbio, la pellicola si lascia afflosciare sotto i colpi del suo vuoto ciarlare su assicurazioni, rimborsi e massimali, vero vizio capitale di una sceneggiatura fin troppo tecnicista e chiacchierona che ben poco ha da offrire a servizio della messa in scena e quasi nulla sembra aver da dire anche in termini generali. L’ingessatura eccessiva delle geometrie su cui il film è basato, incapaci di capovolgere la rigorosità a proprio vantaggio piuttosto che lasciarsene sopraffare, attribuisce all’opera un senso di imbalsamazione cristallizzata, così marmorea che anche quando subentra la drammaticità nel corso degli eventi sembra un ingresso addirittura forzato e poco plausibile, specie dopo un profluvio piuttosto inutile di discussioni su pratiche varie descritte nei minimi dettagli. Dispiace allora che la piattezza di Thin Ice sacrifichi non tanto la bravura di un Alan Arkin troppo spesso rinchiuso, specie dopo il nonno di Little Miss Sunshine, in ruoli da vecchio intrattabile, quanto piuttosto l’ottimo carisma recitativo raggiunto in quest’occasione da Bill Crudup, alle prese con un’interpretazione di ottimo livello nei panni di un personaggio misterioso che Roger Ebert ha mirabilmente definito “weirded out”, cogliendone alla perfezione l’aspetto malsano. Un ruolo decisamente sprecato che non avrebbe decisamente sfigurato in un altro film gemello di Fargo qual è il meraviglioso Soldi sporchi di Sam Raimi, altro saggio implacabile, alle soglie del teorema e del trattato, sulla genesi della grettezza morale in un contesto in cui uomini piccoli piccoli si ritrovano a contendersi interessi troppo grandi per loro. Un capolavoro al quale il film di Sprecher avrebbe dovuto guardare a viso aperto con più originalità e slancio, senza timore di forzare i propri confini e di dilatarsi così verso l’abisso del grottesco e del paranoico. Avrebbe evitato, così facendo, un anonimato imperante che lo rende un film sostanzialmente impenetrabile e amorfo dall’inizio alla fine, rinchiudendo il pubblico in una gabbia d’indifferenza dalla quale è davvero difficile uscire.