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The Yellow Sea

14/10/2013 10:00

Davide Stanzione

Recensione Film,

The Yellow Sea

The Yellow Sea è l’occasione per riaccendere i riflettori su uno dei giovani cineasti orientali più talentuosi, quel Na Hong-jin che con The Chaser aveva stupit

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The Yellow Sea è l’occasione per riaccendere i riflettori su uno dei giovani cineasti orientali più talentuosi, quel Na Hong-jin che con The Chaser aveva stupito più o meno tutti e sorpreso mezzo mondo. La pellicola offre una ri-analisi della società coreana da mettere a fuoco nei suoi parametri costitutivi, un’indagine portata a termine ancora una volta attraverso un approfondimento capillare sugli istinti basici di una nazione e di un’intera fetta di globo, dal punto di vista non solo cinematografico. Dal cibo (nel film si mangia spessissimo) al sesso anch’esso decisamente presente, passando per la proverbiale, incontrollabile efferatezza a tutto campo, con le televisioni accese in continuazione a sormontare la quotidianità, messe lì quasi a fornire un filtro instant alle situazioni narrate che faccia scivolare immediatamente il micro nel macro. Gli inseguimenti di The Chaser sfociano in un revenge movie girato in un economico digitale ma tutt’altro che disposto a lasciare qualcosa al caso in quanto a ritmo e colossalità delle proporzioni, tra deragliamenti d’ogni genere e sequenze adrenaliniche. Al centro della storia un coreano che vive in Cina senza godere di particolari disponibilità economiche, un tassista giocatore d’azzardo subissato dai debiti e dal fallimento del matrimonio con una moglie che è scappata clandestinamente in Corea con un altro. Gu-nam accetta di essere ricattato dal malavitoso Myung-ga e diventa sicario suo malgrado in una Seoul ovviamente livida e nerissima, per ripagare l’enorme debito che pesa sul suo collo e tornare finalmente libero.


Quello di Na Hong-Jin è un film che in parte conferma la mano eccellente e la maturità espressiva di un regista che sa dosare a meraviglia gli ingredienti fondamentali a sua disposizione, abile nelle progressioni e nelle falcate action così come nei momenti più temperati e privi di accensioni coreografiche. The Yellow Sea, sospinto da una prima parte di grande mistero e fascino, pare prendersi i tempi e le pause giuste, mantenendo ottimale il livello di guardia senza quasi mai annoiare o estenuare nonostante la durata fiume, costruendo sull’osservazione contemplativa e sull’attesa molto più che sull’esplosione subitanea di violenza il suo reale motivo d’interesse. Anche le scene più vicine al carnaio puro e semplice si lasciano ammantare dalla veste ariosa e mitica del racconto (la suddivisione in capitoli, in tal senso, non inficia affatto), senza scollature troppo evidenti con il realismo e la crudezza di altre situazioni. Peccato però che nella seconda parte il film, come molte opere connazionali e coeve, pieghi il capo sotto i colpi del suo stesso ipertrofismo, tradendo considerevolmente la compattezza stringata e la secchezza a dir poco smagliante che caratterizzavano il film precedente. Nonostante la macroscopica sbroccatura non mancano i frangenti potenti e ben congegnati, ma la sensazione generale è quella di una stanchezza troppo carica, che moltiplica personaggi, situazioni e alterchi esagitati dimenticandosi di fatto di proseguire sui canali narrativi inizialmente imboccati.


Pur non afflosciandosi mai realmente, superata la prima metà The Yellow Sea patisce innegabilmente il peso di una paralisi, di un avvitamento frenetico e impazzito su stesso. Certo, la messa in scena indiavolata è lodevole ma pare fin troppo studiata, pensata per gremire i buchi che altrimenti sarebbero rimasti scoperti. Rimane dunque addosso più un senso di enfasi che di reale spinta epica, nonostante alcuni momenti folgoranti come la sequenza in cui il superbo Kim Yun-seok si fa largo tra i nemici razziando crani a destra e manca brandendo un osso di manzo. Quest’umanità derelitta che scorre limacciosa e iper-violenta sotto lo sguardo vigile ma distaccato del Mar Giallo, austero supervisore indifferente verso lo sbando totale del mondo che osserva, è collegata per analogia ai cani rabbiosi che infestano gli angoli più bui delle strade. Una metafora rozza e poco originale fin che si vuole ma che, innegabilmente, finisce col funzionare.


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