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Duel

28/01/2016 12:00

Maurizio Encari

Recensione Film,

Duel

Duel ha rivelato al mondo il talento unico di Steven Spielberg

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David Mann, commesso viaggiatore, si trova in viaggio per recarsi a un importante colloquio lavorativo. A bordo della sua Plymouth Valiant rossa, si imbatte durante il cammino in un'enorme autocisterna trasportante materiale infiammabile, che non ha intenzione di lasciarlo passare. Dopo essere, con fatica, riuscito a superare l'enorme "camion" Mann è convinto di continuare tranquillo il suo percorso, fermandosi per una sosta in un autogrill. Tornato alla guida però l'autocisterna si palesa nuovamente nello specchietto retrovisore, arrivando a speronarlo e tentare di mandarlo fuori strada in più di un'occasione: sarà soltanto l'inizio di un crudele gioco del gatto e del topo.


Poco importa se possa essere considerato o meno il suo vero e proprio esordio per il grande schermo, vista la sua natura ibrida (nato per la televisione e allungato per la successiva uscita nelle sale) di partenza: rimane il fatto che è stato Duel a rivelare al mondo il talento unico di Steven Spielberg, allora (siamo nel 1971) soltanto un 24enne di belle speranze reduce da alcune esperienze catodiche. Il Re Mida di Hollywood infatti mette subito in mostra uno dei suoi punti di forza, con una storia narrativamente elementare e uno spettacolo ad alta dose di tensione, incollando allo schermo per tutti i novanta minuti di visione. Un protagonista pressoché assoluto (interpretato magnificamente dal versatile Dennis Weaver) che si trova a lottare contro una nemesi tanto terrena quanto misteriosamente mostruosa, creatura metallica di cui il conducente non compare mai in volto. In questa scelta che strizza l'occhio all'horror, il cineasta vince la sua personale scommessa, rendendo comprimario di fondamentale importanza il soffocante paesaggio desertico, i cui ampi spazi privi di vita e le enormi strade quasi desolate offrono il miglior territorio di battaglia a questa sfida di Davide contro Golia. Il personaggio di Mann si trova così a lottare non solo contro l'implacabile nemico ma anche contro la vastità degli spazi aperti, ulteriore elemento di suspense in un racconto già di per sé teso oltre i limiti, non solo di velocità. Velocità che viene resa alla perfezione dai rocamboleschi inseguimenti/fughe che caratterizzano la maggior parte del minutaggio, con una regia adrenalinica che aumenta notevolmente l'impatto della vicenda (tratta, non dimentichiamo, da un racconto del grande Richard Matheson, che ne ha curato anche l'adattamento). Questo senza nulla togliere alle significative scene "a terra", nei due autogrill nei quali l'automobilista cerca, senza risultati, aiuto e tranquillità; anche in questi casi, complice l'ispirato voice-over atto a renderci partecipi dei pensieri paranoici della preda, il claustrofobico senso di impotenza e paranoia raggiunge picchi di rara efficacia empatica.


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