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Un perfetto sconosciuto

08/04/2016 10:00

Maurizio Encari

Recensione Film,

Un perfetto sconosciuto

Sébastien Nicolas è uno dei migliori agenti immobiliari sulla piazza ma, nonostante le soddisfazioni lavorative, vive un'esistenza solitaria priva di affetti e

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Sébastien Nicolas è uno dei migliori agenti immobiliari sulla piazza ma, nonostante le soddisfazioni lavorative, vive un'esistenza solitaria priva di affetti e amicizie. Ha un lato oscuro che lo porta a studiare nel minimo dettaglio i suoi clienti per poi letteralmente sostituirvisi di nascosto, creando modellini del volto da applicare sul proprio viso, acquistando gli stessi indumenti e replicando nel miglior modo possibile voce e gestualità dei suddetti. Il suo ultimo incarico è quello di trovare una ricca dimora per l'affermato violinista, ormai in declino artistico per aver perso due dita di una mano, Henri de Montalte: Sébastien viene da subito catturato dall'aspra personalità del musicista, portandolo a calarsi mimeticamente nella nuova parte. Quando però si imbatte casualmente nell'ex-compagna di de Montalte e nel figlio mai riconosciuto dall'artista, il furto del ruolo comincia a farsi sempre più pericoloso.


Dopo un prologo, poi ribaltato dal clamoroso colpo di scena di metà visione, memore di Viale del tramonto (1950) e dopo una parte iniziale che riporta alle direttive narrative di Ferro 3 - La casa vuota (2004), Un perfetto sconosciuto assume paradossalmente una sua ferrea e decisa identità: un dramma umano contaminato da profondi istinti da thriller emotivo, che catapulta il racconto in un'incertezza mentale che affascina e conquista nelle sue molteplici diramazioni introspettive. Un perfetto sconosciuto è un'opera aperta a più interpretazioni, che aggiorna gli stilemi hitchcockiani in una scatola cinese di bugie e insicurezze sino al più necessario degli epiloghi, vera e propria summa morale di quanto visto nelle predenti due ore. Matthieu Delaporte - apprezzato sceneggiatore alla sua terza prova dietro la macchina da presa dopo La giungla a Parigi (2006) e Cena tra amici (2012) - ha il grande merito di rendere empatica una vicenda dai tratti torbidi e scostanti, grazie a uno stile sobrio e immediato che, pur rispecchiando in toto i canoni dell'autorialismo francese più raffinato, riesce a evitare tempi morti raccontando il necessario e scavando con piccoli tocchi nella deviata psicologia di Sébastien, uomo solitario e che si sente vivo solo impersonificando la vita di altri. Personalità tagliente ed effimera, trasformista nella consapevolezza di errare senza però la volontà di creare danni a nessuno, volontà che è inesorabilmente portata a influenzare gli eventi e i destini di una madre e un figlio abbandonati al loro destino. Il regista/attore Mathieu Kassovitz si cala con disinvolto e strabiliante trasformismo in un doppio ruolo che lo vede giocare su più registri con incredibile e magnetica naturalezza.


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