Con L’uomo nero, Sergio Rubini torna alle sue origini, alla sua amata Puglia, con i suoi colori, le sue case antiche, la sua gente forte. Tutte caratteristiche che emergono prepotentemente da questa pellicola. Accostabile senza dubbio a recenti titoli ben più blasonati e costosi (vedi Baarìa), il film riesce però ad entrare maggiormente nel cuore e nell’immaginario collettivo, perché più autentico, meno ragionato, più intimo. È il racconto di una riflessione che tutti noi, forse, ci troveremo a fare: quella del ruolo del genitore lungo la strada della vita. Gabriele (Guido Giaquinto) è un bimbo vispo e allegro, alle prese con una famiglia affettuosa e pittoresca. Suo padre fa il capostazione, sua madre l’insegnante, e suo zio - fratello della mamma - gestisce un piccolo emporio in paese. I quattro vivono tutti insieme calorosamente, con tutti i pro e i contro che una situazione del genere può creare. Ernesto (Sergio Rubini), il papà di Gabriele, in particolare, rende spesso l’atmosfera familiare un po’ tesa, in quanto ossessionato dalla voglia di dimostrare a tutti che la vena pittorica che sente dentro è supportata da doti da vero artista. Il suo talento sembra però rimanere incompreso, soprattutto da quei critici nel suo paese al cui giudizio Ernesto tiene così tanto. Il rapporto tra Gabriele e suo padre diviene conflittuale, poiché quest’ultimo sembra tenere più alla sua arte che alla sua famiglia. Il piccolo si lega perciò moltissimo allo zio Pinuccio (Riccardo Scamarcio), il quale sembra vivere la vita in modo più leggero e accattivante, rispetto al genitore. Ago della bilancia di tutto, è sua madre Franca (Valeria Golino), che riesce a subire le tensioni del marito, a mandare avanti una casa con tre maschi combina guai e ad avere sempre una buona parola per il suo bambino. Dalla mamma, Gabriele sembra aver ereditato la capacità di vedere e parlare con le anime dei defunti, e grazie alla sua immaginazione, riesce ad affrontare con leggerezza anche quelle situazioni difficili che la frustrazione del padre fa scontare anche a lui. Attraverso la passione di Ernesto per Paul Cézanne, Rubini “pennella” le inquadrature affinché si sentano i colori del Maestro, la devozione che si nasconde dietro ad un ideale, la sofferenza che può scaturirne nel perseguirlo, la forza d’animo e l’amore che ci vuole per non abbandonare chi ci fa sopportare ciò che non capiamo. Così, Franca è la madre antica, ma attuale, innamorata del suo uomo, sempre pronta a sorreggerlo così come a contestarlo; Pinuccio il portatore di allegria che riesce a distrarre e ironizzare sulle situazioni troppo pesanti ed Ernesto, quel genitore da cui un po’ tutti pensano di doversi contraddistinguere, per trovare la propria identità, nasconde altresì una luce sorprendente che solo in seguito ci si ritrova a comprendere e condividere. Ottimo il cast, a cominciare dall’esordiente piccolo Guido Giaquinto, espressivo e bravissimo; ad una Valeria Golino forse un po’ meno raffinata del solito, ma proprio per questo più dentro al ruolo; ai due talvolta macchiettistici Rubini e Riccardo Scamarcio, che però smussano i toni drammatici e conferiscono al film momenti di pura commedia, rendendolo completo e mai noioso. Bellissima e commovente la scena del treno, in cui Gabriele scopre che lo spaventoso “uomo nero”, a volte confuso nei suoi sogni con suo padre, altro non è che il buon uomo che tira le caramelle dal finestrino agli orfani dell’istituto sotto la ferrovia. Con questa bellissima riflessione sull’importanza di andare oltre le apparenze, oltre il pregiudizio, di saper riconoscere la vera forza d’animo e il vero amore, Rubini ci guida per le strade della Bari vecchia, della Puglia antica, nei suoi valori come nei suoi colori, descrivendo con estrema poesia il mondo della sensibilità umana.