Una pellicola che conserva il fascino del cinema anni ’40, e che al tempo stesso lancia i ponti per un rinnovamento: ovvero quando la poiesis cinematografica era arte scevra dai condizionamenti del botteghino o dei blockbuster, per farsi documento storico. Luchino Visconti apre con Ossessione l’era del Neorealismo. Surclassati i tempi dei “telefoni bianchi”, la regia si tempra di un nuovo vigore e di ritrovata linfa. Il desiderio di denuncia sposa il bisogno di raccontare gli anni della Resistenza e dell’Italia post-bellica. Così il Po – o meglio la Valle Padana – diviene geograficamente il nucleo interessato al cambiamento in corso, fungendo da apripista come “ set strategico” per gli altri grandi cineasti degli anni a seguire: De Santis, Lattuada, Rossellini, Olmi, Zavattini, Soldati, Avati. Il soggetto trae spunto dal romanzo di James Caine The postman always rings twice. La sceneggiatura – definita dalla critica novecentesca il punto di debolezza del film – è stata scritta da Luchino Visconti, Mario Alicata, Giuseppe De Santis e Mario Puccini. In realtà il film non spicca di certo per i suoi dialoghi. I protagonisti, Clara Calamai (Giovanna) e Massimo Girotti (Gino), comunicano con i soli gesti, con gli sguardi, si provocano con i silenzi ed ammiccano con gli occhi. L’inquadratura iniziale - dell’incontro tra Gino e Giovanna - è di certo una delle più belle da ricordare, come la sequenza della spiaggia, che vede i due amanti ritrovarsi dopo struggenti traversie. Nino Ghelli lettore dell’Italia Giovane scrive a tal proposito che la morale del film è tutta lì. Il plot è elementare: il triangolo vede in gioco i sentimenti della bella Giovanna, sposata con Giuseppe Bragana (Juan De Landa), ma perdutamente innamorata di Gino, vagabondo per scelta più che per necessità, ed impenitente, dal temperamento crepuscolare. Dopo segreti incontri e tentativi di fuga falliti, i due escogitano un modo per eliminare “la larva voluminosa, ma vuota”, nella speranza di coronare da lì a breve il sogno di un amore inviso da tutti e considerato dai più peccaminoso. In realtà la morte del Bragana non aiuterà i giovani ad esaudire i loro intenti, invero è “come se esso non fosse neppure esistito”, pertanto Gino e Giovanna si ritroveranno più distanti che mai, schiavi delle proprie paure e dei sensi di colpa. A suggellare magnificamente il film, la scena finale, tanto tetra quanto poetica, vede nel tragico epilogo, una sorta di provvidenza manzoniana per cui ogni peccato è tolto, e gli amanti, seppur divisi, potranno vivere l’uno nell’altro senza rimorsi. Aldo Tonti e Domenico Scala curarono la fotografia: come degno fregio della pellicola, Tonti fece un lavoro puntiglioso e ben studiato soprattutto sugli artisti. L’imbruttimento tanto voluto dal fotografo, tramite cui si attirò le ire della giovane Calamai, fu sì pregevole, ma non tale da adombrare la Diva che già brillava di uno sguardo ammaliante e provocante. Pietra miliare del cinema italiano, Ossessione merita sempre di essere visto a dispetto delle malelingue, delle critiche mosse dalla stampa cattolica o dai moralisti. Tratteggia emozioni e situazioni che in Ultimo tango a Parigi e in Salò avranno più ampio risalto ma che, nonostante contenuti decisamente più espliciti, provocheranno di certo meno indignazione.