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Autodafè

14/03/2010 12:00

Antonella Sugameli

Recensione Film,

Autodafè

Emiliano Cribari sperimenta ancora...

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Emiliano Cribari sperimenta ancora. Fabrizio Rizzolo, suo alter ego cinematografico, è Claudio, quarantenne frustrato, insoddisfatto e solo. In seguito alla morte del padre iniziano ad accadere strani avvenimenti in casa: sembra che uno spirito giovane inquieti i sonni e gli stati di veglia del povero malcapitato. Diffidente e sensibilmente provato, Claudio si lascia travolgere, suo malgrado, dalla spirale di accadimenti che lo vedono protagonista: messaggi anonimi inviati al suo indirizzo di posta, incubi popolati da un passato apparentemente rimosso, il ricordo del padre morto ancora vivo in lui. Gli stati di intima confusione e di morbosa socialità da cui è vessato, lo costringono a cercare rapporti fugaci e privi di corresponsione con donne sposate e a loro volta nevrotiche o fragili. Claudio ha solo una speranza per poter continuare a vivere: morire.


Il termine Autodafé indicava la cerimonia pubblica di esecuzione capitale durante l'Inquisizione spagnola. La processione comportava una serie di riti affinché il condannato potesse liberarsi dalla colpa. L’espiazione cristiana, di un qualsiasi peccato, è l’atto tramite cui si placa la divinità offesa attraverso preghiere o rituali sacri. Il concetto religioso si scontra nel film con quello pagano di poltergeist ovvero “spirito rumoroso”. Il protagonista della pellicola è un individuo abbandonato dall’amore, tenuto in vita dai ricordi, frustrato dall’odio. Il suo inconscio è popolato di mostri, di suoni, di sibili, di voci, probabilmente amplificatori più o meno tangibili di pruriginosi sensi di colpa mai messi a tacere. Claudio vive il sesso come una strana forma di logorrea verbale o visiva: la penetrazione è preceduta da un asettico rapporto intimo in cui prevale l’afasia. Le donne sono quadri da osservare, materiale umano privo di sostanza. Silvia, amica e collega di Claudio ne eccita la fantasia perversa con relazioni saffiche mediante webcam. Katia lo aiuta nelle faccende di casa e compensa l’assenza di una donna all’interno del focolare domestico. Francesca, dirimpettaia sposata con Antonio, colma i silenzi di Claudio con racconti piccanti del suo rapporto atipico con il marito. La vita ruota attorno a Claudio, mentre Claudio la osserva. Quando tutti i pezzi del puzzle vengono ricomposti, l’io del protagonista si trova a fronteggiare se stesso. Il suo nome diventa il poltergeist più temuto e fastidioso. Nell’alcova di un profondo silenzio, sarà un rumore sordo a mettere fine al suo dramma esistenziale, affinché ogni cosa ritorni ad avere il posto che merita e Claudio ritrovi la pace tanto attesa.


Cambiare, evolversi, sperimentare. Un diktat che in Emiliano Cribari è l’espressione stessa della sua arte. Dal diario intimo di un attore-autore-regista alla mise en scene di un thriller psicologico, condito da tensione erotica e suspance noir. Dismessi i panni del poeta malinconico sceneggiatore di Tuttotorna o del paroliere di Brokers, eroi per gioco, il regista si affaccia al mercato cinematografico con uno sguardo curioso, critico, indagatore e realista. I personaggi sulla scena si muovono spesso in bidimensionalità, l’aspetto emotivo o psicologico non è indagato, non esistono se non nella relazione con il protagonista. Sono corpi aerei. Claudio, invece, è l’anima dannata in un corpo rassegnato alla perdizione. Si apprezza il talento del giovane filmaker fiorentino, messo a dura prova dalla legge del blockbuster, nel tentativo di approcciare a un nuovo genere cinematografico. Nel suo stile "Le cose che so di me", non abbandona neppure in questo caso la visione intimistica, tipica del poeta di strada e realizza un lungometraggio non più di nicchia. Il montaggio, curato dallo stessa regista, e le musiche donano alla pellicola la giusta atmosfera ed operano tecnicamente alla buona riuscita del film.


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