Tenere alta la testa, la propria dignità, il proprio coraggio: è questo ciò che si dice ai pugili, agli eroi, a quelli che nella vita devono combattere e rimanere, appunto, a viso alto. Sono queste le parole che un padre dedica come monito continuo al figlio mentre lo vede crescere, mentre gli insegna l'arte della boxe. Un eccezionale Sergio Castellitto indossa i panni stanchi di Antonio Mero, nel film di Alessandro Angelini. Egli disegna la trama al di là della cornice stessa del quadro, gli eventi sono affastellati gli uni dopo gli altri senza la precisione da pacchetto televisivo, tutto sembra aderire alle dinamiche della realtà quotidiana senza stelle di cartapesta dorata in stile hollywoodiano, a colorare i contorni della vita dei protagonisti. La storia è quella di un uomo che va ad di là del suo ruolo di padre e di volta in volta diviene madre, allenatore, amico, per suo figlio Lorenzo. Proprio nei suoi confronti, Mero proietta tutte le sue aspettative e i suoi sogni di anonimo dilettante, tanto da ingabbiarlo in un mondo chiuso. Tutti i personaggi rimangono vittime della solitudine, sono tutti personaggi con la ruggine addosso, che credono di aver ricevuto dalla vita meno di quanto meritassero realmente e quindi diffidenti verso il mondo esterno, sempre in guardia, privi della calma necessaria per abbassare la testa, anche solo per un momento. Come ne L'aria salata Angelini calca nuovamente le tappe di un percorso affettivo padre-figlio, ma la storia va oltre i binari di questo rapporto così intimo e ben descritto nella prima parte del film, per perdersi nei meandri di una sceneggiatura che s'impoverisce di pari passo all’aumento dei temi trattati: morte di un figlio,donazione degli organi, immigrazione clandestina, condizione di vita dei transgenders. Una buona storia, narrata con disincantato realismo e priva di confezionamenti colorati per un mondo felice e patinato, finisce col ridursi a una serie di buone intenzioni che si sciolgono nella grigia banalità del già visto e già detto.