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Jackie

15/09/2016 10:00

Valentina Pettinato

Recensione Film,

Jackie

Pablo Larraín porta in concorso al Lido i giorni successivi all’omicidio di John Fitzgerald Kennedy

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Pablo Larraín porta in concorso al Lido Jackie, pellicola che affronta i giorni successivi all’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, dalla prospettiva della First Lady Jaqueline.


Jacqueline Kennedy (Natalie Portman) decide di rilasciare un’intervista dopo l’assassinio di suo marito. Così riceve il giornalista incaricato di raccogliere le sue confessioni (Billy Crudup), al quale racconta con estrema sincerità il dolore di una donna che ha visto morire il marito tra le sue braccia. Tra numerosi e bellissimi flashback, il film è un racconto degli Stati Uniti in una manciata di anni sessanta, dove si confondono realtà e finzione e la storia si plasma attraverso strumenti mediatici che la modellano e che la incastonano in una dimensione mitica. Jackie è un biopic, ma non ne rispetta tutti gli stilemi: piuttosto usa la sua protagonista per mettere in scena il dolore, straziante, di una donna - ma non di una donna qualunque - che si trova ad attraversare un certo periodo della storia che tragicamente finisce, e che deve fare i conti con quegli anni.


L’elaborazione del lutto assume forma mediatica: Jacqueline, tra i suoi ricordi, ripensa a che moglie è stata; cerca la donna che sarà. L’impalcatura narrativa è quella dell’intervista, e non a caso. I media in questo racconto hanno un ruolo fondamentale, quasi maieutico: restano sullo sfondo di una curata messa in scena che privilegia la sua eroina protagonista, perché racconto di una certa iconicità. Attraverso gli splendidi primi piani ricostruiamo tutto: il passato, il presente e un incerto e disperato futuro. Una vita passata tra ciò che viene detto e quello che non si può riportare sui giornali.


Pur partendo da un fatto centrale (l’omicidio di Kennedy a Dallas) Larraín va oltre, oltre persino il suo personaggio principale. Jackie occupa, con la sua fragile silhouette, un tempo, ma soprattutto uno spazio. È quello di sontuosi palazzi, appartenuti alla politica. Gira tra le stanze come simulacro del passaggio del tempo, delle epoche. Jacqueline è fragile ma mai arrendevole. Il suo punto di vista dei momenti successivi alla morte del Presidente, dalla corsa disperata in ospedale al funerale, è uno sguardo straziante. Il punto di vista di una donna, all’ombra del mito: Jacqueline ha perso due figli e sta per seppellire il marito. Pensa di restare da sola ad affrontare una vita in cui crede e sarà persino costretta a vendere oggetti di famiglia per pagare gli studi ai propri figli. La regia, severa, svuota lentamente la sua protagonista di ogni appartenenza, facendone simbolo di una tragedia. La macchina da presa la segue mentre passeggia tra le stanze di una casa che non abiterà più, che non arrederà più; indugia, mentre indossa e poi toglie lentamente i vestiti che l’hanno resa uno stile - donato alle donne del mondo - che forse non le apparterrà più.


Dopo un certo rigore, il film scivola sul finale: case, stanze scatole vuote, ma anche la speranza di una nuova fase di vita. Costruire un film su una delle donne simbolo della storia non era certo semplice. Larraìn, complice anche l’ottima sceneggiatura di Noah Oppenheim, realizza un lavoro interessante, struggente e tenero allo stesso tempo. Uno sparo e tutta una vita, una bellissima lucente vita, non esiste più. Tutto un futuro, ciò che poteva essere, ciò che poteva trasformare la storia non lo sapremo mai. Mentre seppelliamo un uomo, una donna emerge teneramente dalle tenebre, smettendo di arredare case appartenute agli altri e scegliendo, dopo una lunga confessione (con Dio e con il "popolo"), di iniziare a vivere la sua. Di essere – finalmente – solo Jacqueline.


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