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Slevin - Patto criminale

16/05/2017 11:00

Marco Filipazzi

Recensione Film,

Slevin - Patto criminale

Un film da vedere e rivedere ancora

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Qualsiasi appassionato di cinema porta nel cuore i propri cult personali, mostri sacri e intoccabili con i quali non scenderà mai a compromessi. Sono capolavori assoluti a prescindere dall’opinione degli altri, siano essi la critica altolocata, gli amici o internet in generale. Accanto a questi vi sono dei cult di passaggio, pellicole con cui si va in fissa per un mese o più e che si riguardano sino alla nausea, imparando le battute a memoria, citando pezzi di dialogo e persino atteggiandosi come alcuni dei personaggi. Poi finiscono del dimenticatoio, ricordati solo sporadicamente o addirittura obliati per anni. Quando però vengono riscoperti, tra snodi di trama che appaiono come deja’vu, battute che suonano familiari e fanno sorridere lo spettatore (che magari in un paio di occasioni riesce ancora ad anticiparle) diventano simili a delle macchine del tempo, riportando alla memoria quel periodo in cui sono stati un must personale. Sensazioni, ricordi, il tempo passato.


Slevin (Josh Hartnett) viene scambiato per un certo Nick Fisher che deve dei soldi a un losco individuo che si fa chiamare Il Boss (Morgan Freeman). Questo ha bisogno di qualcuno che faccia un lavoretto sporco e propone al ragazzo di azzerare i suoi debiti a patto che uccida il figlio del suo rivale, Il Rabbino (Ben Kingsley).


Passato in sordina nelle sale italiane a causa dell’infelice programmazione estiva (uscì il 18 agosto del 2006) Slevin - Patto criminale — impacciata traduzione dell’originale Lucky Number Slevin — ha goduto di un discreto successo in home-video, quando ancora esistevano i videonoleggi, grazie a un buon passaparola. Il film viene troppo spesso considerato da una critica superficiale come derivato della poetica di Quentin Tarantino. In effetti gli ingredienti alla base ci sarebbero tutti: una nutrita schiera di attori pescati a piene mani dalla sua filmografia (Lucy Liu, Bruce Willis, Robert Forster), l'ambientazione nel mondo della malavita, i personaggi eccessivi e iper-caratterizzati, i dialoghi a mitraglia che apparentemente non sembrano azzeccarci nulla con la storia e alcuni monologhi da standing ovation; il tutto centrifugato da una narrazione non-lineare che procede a suon di flashback e sottotrame. Solo nell’atto finale ogni tassello di questo intricato mosaico troverà la propria collocazione, regalando allo spettatore un affascinante quadro completo. A un analisi più attenta però Slevin - Patto criminale è debitore più ad autori come Guy Ritchie (Lock & Stock e Snatch - Lo strappo, ma soprattutto il suo RocknRolla del 2008) e i fratelli Coen: lo scambio d’identità iniziale sembra uno sboccato omaggio a Il grande Lebowski, con un asciugamano al posto di un accappatoio. Ma se è vero che il cinema non è altro che un gioco di specchi dove ogni storia è già stata narrata, sotto le sue vesti pulp Slevin - Patto criminale nasconde un’anima noir che si allinea a I soliti sospetti, diretto da Bryan Singer nel 1995. C’è una battuta ben precisa, pronunciata sul finire del terzo atto, che funge da fil rouge e unisce le due pellicole: «Continua a parlarmi di una leggenda metropolitana». Esattamente come Kayser Soze entrambi sono basati su miti noti solo negli ambiti malavitosi. Anche la struttura stessa dei due film è in qualche modo speculare: fatta di scene apparentemente sconnesse tra loro, alcune addirittura inutili, ma rivelatorie a una seconda visione, quando lo spettatore è ormai a conoscenza del quadro generale. Per questo Slevin - Patto criminale è “un film da fissa”: lo spettatore rimane intrappolato nel suo groviglio narrativo e il solo modo di potersi districare è rivederlo ancora e ancora. E a ogni visione la storia sarà più chiara, i dettagli più coerenti, i personaggi cool saranno sempre più cool e i cattivi sempre più cattivi.


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