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47 Metri

28/05/2017 11:00

Marco Filipazzi

Recensione Film,

47 Metri

Una vera e propria perla di tensione

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Due sorelle in vacanza in Messico decidono d’immergersi in una gabbia al largo della costa per vedere da vicino degli squali bianchi: peccato che la gabbia si stacchi dalla barca a cui è ancorata finendo sul fondo dell'oceano. Il recupero è impossibile e l’ossigeno in rapido esaurimento. Tra loro e la barca vi sono quarantasette metri di acqua, infestata da squali.


Pare che esistano solo due modi per approcciarsi a un natural-horror, ovvero un film in cui le forze della natura, intese come animali non come eventi atmosferici (quelli sono disaster-movie), si ribellano all’uomo. Partiamo dal presupposto che la struttura narrativa di questi film è prestabilita in partenza: un fatto scatenante, la presentazione del gruppo di protagonisti, la bestia di turno che si palesa, i protagonisti che girano in tondo cercando di trovare una soluzione e razionalizzare la situazione, mentre muoiono uno dopo l’altro come le vittime di uno slasher sino allo scontro finale. I soli margini di manovra concessi agli sceneggiatori sono le morti dei personaggi, che devono essere di volta in volta il più fantasiose o violente possibili, e il tono con cui imbastire la storia.


Da una parte quello più facile e semplicistico, coniato da Roger Corman per il mercato dei drive-in e oggi portato avanti dalla Asylum. Personaggi tagliati con l’accetta, nessun colpo di scena, effetti speciali raffazzonati (prima mostri di gomma, ora pessima CGI). Ovvio, anche all’interno di questa categoria ci sono prodotti più meritevoli di altri, ma l’approccio è sempre il medesimo: sono film che vanno visti senza pretese, scollegando il cervello, magari con una birra in mano o in compagnia di qualche amico (oggettivamente, se visionata con il giusto spirito la saga di Sharknado è un capolavoro). Dall’altro lato c’è l’approccio più autorale, che si basa sulla costruzione di personaggi dalla psicologia solida e un sapiente uso della tensione narrativa e annovera tra le proprie file autentici capisaldi del genere come Uccelli di Alfred Hitchcock e Lo squalo di Steven Spielberg. Film che anche alla trentesima visione ti tengono sul filo del rasoio sino ai titoli di coda. Ovvio, questo tipo d’approccio è molto più difficile, ma se gli ingredienti raggiungono la perfetta alchimia allora ci si trova a vedere delle autentiche perle. E 47 metri è una vera e propria perla di tensione. La scorsa estate era stata la volta del bellissimo Paradise Beach, quest’anno ci penserà 47 metri a farci passare la voglia di andare al mare. Molti i punti in comune tra i due film (la location messicana, il superamento dei problemi personali delle protagoniste di cui lo squalo è un’enorme metafora) ma la vera forza del film è il fatto di riuscire a staccarsi dai canoni del genere. In apertura si parlava di come questo tipo di film sia in qualche modo preimpostato, e infatti il regista Johannes Roberts si rifà più alla mitologia dello space-survivor che a quella degli shark-movie. Le protagoniste isolate, l’ossigeno che scarseggia, le forze che si assottigliano e le allucinazioni audiovisive sono tutti ingredienti che avvicinano 47 metri più a un film come Gravity che al già citato Paradise Beach - Dentro l'incubo, sostituendo lo spazio siderale con i profondi abissi. Questo concetto, unito a una regia mai banale che riesce a sfruttare abilmente una fotografia buia per nascondere pericoli in ogni dove (la scena del bengala potrebbe diventare una delle icone degli shark-movie moderni) rende 47 metri un thriller psicologico in cui, come detto in precedenza, lo squalo altro non è che una metafora delle difficoltà che la protagonista deve riuscire a superare.


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