Nella religione ebraica la settimana della Shiv’ah è quel periodo che segue la scomparsa di una persona cara: viene dedicata a compiangere il defunto, pregare per lui e consolare e aiutare la famiglia. Ma per Eyal Spivak e sua moglie Vichy una settimana non basta di certo per superare la perdita del loro figlio venticinquenne Ronnie. I due membri della coppia reagiscono in modo completamente diverso a questo lutto: il ritorno alla routine sembra più nelle corde di Vichy, insegnante, che si ributta a capofitto nel lavoro; Eyal, che fa il negoziante, opta invece per un rinnego totale della routinè. Quando trova una busta di marijuana terapeutica nella camera d’ospedale in cui si trovava il figlio, decide di provare a usarla per tirarsi su. Intraprende così un’alleanza col figlio degli odiati vicini Zooler e presto i due si ritrovano a passare sempre più tempo insieme, fumando spinelli e giocando a ping pong. L’opera prima di Asaph Polonsky, Una settimana e un giorno, ha vinto premi all’Haifa Film Festival, all’American Film Institute, ai Sofia Meetings, all’International Film Lab di Gerusalemme oltre che alla Semaine de la Critique a Cannes. Si tratta di riconoscimenti meritati perché il regista, poco più che trentenne, nato a Washington ma cresciuto in Israele, è riuscito a sfruttare il plot di partenza per dar vita a un originale storia sull'elaborazione del lutto. La vicenda risulta paradossale, ma allo stesso tempo illustra con efficacia come il dolore e la sofferenza siano così soggettivi che ognuno può trovare conforto e perdizione in modo completamente diverso. Grande pathos e umanità emergono da situazioni apparentemente strampalate. La scelta di ambientare la storia in Israele non è un caso. Nel paese simbolo per eccellenza di dolore e redenzione, si muove la vicenda senza echi di una famiglia normale, colta, educata, che perde il proprio figlio. La vicenda poteva aver luogo ovunque nel mondo, ma i piccoli dettagli che caratterizzano i personaggi e la scelta di raccontare la tradizione della Shiv’ah aprono una prospettiva nuova e affascinante. Tre star israeliane interpretano i protagonisti - Shai Avivi nel ruolo di Eyal, Evgenia Dodina in quello di Vicky e Tomer Kapon in quello di Zooler - rendendo giustizia alla visione del regista, facendo emergere tutta la psicologia e il background dei personaggi. La recitazione, in effetti, è la colonna portante su cui si regge il film. L’unica pecca è forse il ritmo, a tratti eccessivamente lento, che dall’introspezione vira spesso in eccessive lungaggini. Il debutto di Asaph Polonsky si pone quindi come un interessante viaggio, dal respiro universale, sul processo di elaborazione del lutto di fronte a un fatto immutabile: a dispetto delle perdite più dolorose immaginabili, il mondo non si ferma per il cordoglio di nessuno.