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Under the Shadow - Il diavolo nell'ombra

03/12/2017 12:00

Marco Filipazzi

Recensione Film,

Under the Shadow - Il diavolo nell'ombra

Il folklore popolare poteva essere un buono spunto per costruire una storia horror

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Il folklore popolare è sempre stato un buono spunto per costruire una storia horror, così come usare un contesto particolare, che può essere o una location inusuale (dalla seggiovia di Frozen al fondo degli abissi in 47 Metri) o uno sfondo temporale ben contestualizzato. Con Under the Shadow - Il diavolo nell'ombra il regista Babak Anvari riesce ad arricchire una storia che segue un canovaccio a dir poco classico con entrambi questi elementi.


La vicenda si svolge in una Teheran (che già suona molto meno famigliare della solita provincia borghese americana) funestata dai bombardamenti durante la guerra con l’Iraq nel 1980 (il che lo stacca nettamente dalla media degli horror contemporanei). Mentre suo marito viene chiamato al fronte per difendere il paese, Shideh (Narges Rashidi) resta sola con la figlia Dorsa (Avin Manshaldi) la quale sostiene di essere perseguitata da una presenza. Un Djinn, un demone della cultura persiana.


Ci sono molti spunti interessanti in Under the Shadow - Il diavolo nell'ombra, tanti sottotesti che si staccano dalle solite trame piatte che approdano sul grande schermo. Inanzitutto la manifestazione del Djinn come metafora della guerra incombente sulle protagoniste; le donne che difendono il focolare domestico da questo demone, in parallelo al marito chiamato a combattere per il proprio paese. E poi l’intera cultura persiana, quasi sconosciuta a noi occidentali, così ricca di folklore inesplorato, che avrebbe potuto essere sviscerata molto meglio anziché venir solamente accennata. Perché il problema principale di Under the Shadow - Il diavolo nell'ombra è proprio questo: la sceneggiatura è densissima di idee che avrebbero meritato un respiro maggiore, ma che invece restano fini a se stesse, favorendo una messa in scena molto più classica e proprio per questa priva di un vero fascino.


La tensione viene giocata bene in un paio di scene, ma tutti i trucchi utilizzati sono old-school e risultano inefficaci a un pubblico smaliziato. Le atmosfere trasudano di classicismo horror anni ’70 e ’80, rieccheggiando un po’ l’onda revival inaugurata in tempi recenti da James Wan. Abbondano i jumpscare a buon mercato e molte scene hanno il sapore del già visto, il che non fa altro che annacquare il film diluendo tutti gli spunti buoni premessi all’inizio.


Insomma c’è un contesto e una tradizione che sono davvero innovativi, ma vengono sacrificati da una messa in scena “americana” che riporta ogni cosa nello standard del mainstream. Un vero peccato perché se avesse seguito il proprio istinto il regista Babak Anvari ci avrebbe regalato un horror davvero originale anziché qualcosa che scivolerà presto nel dimenticatoio senza lasciare alcuna traccia.


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