Presentato al 35° Torino Film Festival, uscirà nelle sale italiane verso la fine di agosto Mary Shelley - Un amore immortale di Haifaa al-Mansour (La bicicletta verde), prima regista donna dell’Arabia Saudita. Si tratta di un biopic sulla tormentata vita della scrittrice inglese Mary Wollstonecraft Godwin, che assurse a fama internazionale pubblicando nel 1818, dapprima in forma anonima, poi con il cognome del marito, Frankenstein, uno dei capolavori della narrativa gotica. Mary era figlia della filosofa e protofemminista Mary Wollstonecraft - che morì dieci giorni dopo averla data alla luce ma che ha avuto, nonostante ciò, un’influenza fondamentale sul pensiero della figlia - e di William Godwin, scrittore e filosofo di idee libertarie. Cresciuta nella Londra di inizio ‘800, la giovane Mary acquisisce gli insegnamenti del padre e, come la madre, matura idee di emancipazione femminile in una società in cui la donna era vista esclusivamente come “angelo del focolare”. La vita di Mary, che sin da ragazzina si diletta a scrivere racconti incentrati sul mistero, cambia radicalmente grazie all’incontro con il poeta romantico Percy Bysshe Shelley, del quale si innamora perdutamente. Il film di Haifaa al-Mansour ruota intorno alla tumultuosa relazione fra Mary e Percy. Un amour-fou stroncato dalla morte del poeta avvenuta all’età di soli 29 anni a causa di un naufragio di fronte a Viareggio. Il ritratto di Mary Shelley realizzato dalla regista con la sceneggiatrice Emma Jensen tratteggia una donna forte, che vive la propria storia d’amore come un modo per affermare libertà e indipendenza, desiderio di emancipazione. Una storia resa tormentata dalla morte di tre dei quattro figli avuti con Shelley, un dolore enorme che la accompagnerà tutta la vita. Uno strazio che Mary, interpretata da Elle Fanning, riuscirà a sopportare solo grazie alla scrittura. Molto attento ai particolari dell’ambientazione storica, grazie alla scenografia di Paki Smith e ai costumi di Caroline Koener, Mary Shelley - Un amore immortale è un film sulla solitudine, sulla difficoltà a farsi accettare per la propria diversità. Frankenstein è il ritratto di una “creatura” sublime, diversa; un “mostro” che a causa della propria diversità genera terrore e, per questo, è irrimediabilmente solo. Un personaggio che riflette molto della vita della stessa scrittrice e nel quale lei riversa il proprio tormento legato ai rapporti con il padre e con il marito. Nella pellicola, come è giusto che sia, viene data molta importanza al soggiorno di Mary, Claire (la sua sorellastra) e Percy presso la villa del grande poeta britannico Lord Byron, sul lago di Ginevra. Un periodo complesso e complicato che segnò per sempre la giovane scrittrice inglese, rappresentando una sorta di passaggio dall’età adolescenziale a quella adulta. Il film, nonostante abbia il pregio di portare sul grande schermo la figura di una donna che ha avuto molta importanza nell’affermazione dei diritti femminili, pecca tuttavia nella realizzazione. A difettare, in particolare sono la recitazione, spesso fastidiosamente melodrammatica e declamatoria, e alcuni personaggi, in particolare Percy Shelley (Douglas Booth) e Lord Byron (Tom Sturridge), descritti in maniera un po’ troppo scontata e stereotipata. Un’occasione solo in parte riuscita per omaggiare degnamente la figura di una fra le più importanti intellettuali anglosassoni dell’Ottocento.