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Sette note in nero

14/08/2018 10:00

Marco Filipazzi

Recensione Film,

Sette note in nero

Un meccanismo a orologeria perfettamente oliato, i cui tasselli s’incastrano a meraviglia

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La Sposa si siede sul lettino di ospedale su cui è stata sdraiata per 4 anni, poi cerca di rimettersi in piedi ma le gambe non la reggono. Cade sul pavimento. Sentendo dei passi avvicinarsi lungo il corrioio estrae il coltello dalla cintura della sua vittina e si trascina con le braccia in cerca di un nascondiglio. La porta si apre e un uomo in divisa da infermiere si trova davanti uno spettacolo imprevisto. L’inquadratura si muove lentamente verso il basso a scoprire il viso della Sposa acquattata dietro la porta. Lei scatta, brandendo il coltello a recidere i tendini delle caviglie dell’uomo che crolla a terra urlando. Per tutta la scena, il solo suono è il crescendo della colonna sonora di Sette note in nero, composta da Fabio Frizzi nel 1977: per chi non l'avesse ancora riconosciuta, la scena in questione è tratta da Kill Bill di Quentin Tarantino, anno 2003, uno spudorato omaggio all'opera di Lucio Fulci.


Sette note in nero chiude il ciclo dei gialli iniziato da Fulci nel 1969 con Una sull’altra e proseguito prima con Una lucertola con la pelle di donna, poi con Non si sevizia un paperino. Tutti e tre sono gialli atipici, film contaminati da altri generi e suggestioni  - il primo un giallo erotico, il secondo un thriller, il terzo sfiora vette esoteriche/folkloristiche - e in alcuni casi contenenti un messaggio di denuncia sociale non indifferente. Sette note in nero rappresenta la precisa conclusione di un ciclo artistico, quello del giallo appunto, e contiene i semi di quello che sarà il futuro del regista (e il motivo per cui deve la propria fama internazionale): la violenza, lo splatter e la voglia di scioccare lo spettatore.


Zombi 2 arriverà al cinema meno di due anni dopo Sette note in nero, ma già in questo film è presente - in maniera molto più marcata rispetto alle pellicole precedenti - il desiderio di sangue del suo autore. Basta la scena d’apertura con la donna che cade dalla scogliera, intervallata da dettagliati primi piani del corpo che si lacera contro le rocce – una sequenza che pare essere stata presa dal finale di Non si sevizia un paperino, il che lega i due film in modo enigmatico – per avere un’idea di ciò che verrà.


Virginia, ragazza inglese in vacanza-studio a Firenze, ha una premonizione in cui assiste al suicidio di sua madre, in Inghilterra. Anni dopo, quando è ormai una donna sposata, ha un’altra visione: un misterioso uomo zoppo che uccide una donna e ne mura il corpo dietro una parete di casa. Ma chi è quella donna? E soprattutto, l’omicidio è già avvenuto o è ancora da compiersi?


Lucio Fulci è un artista, e come ogni artista ruba. In maniera smaccata qui rielabora in chiave personale Edgar Allan Poe (come per la Trilogia della Morte saccheggerà a piene mani Lovecraft) mutuando l’idea della donna murata viva presente ne Il gatto nero, prima di portare sullo schermo l’intera storia nel 1981 con Black cat. L’idea geniale di Fulci è quella di aggiungere alla vicenda un elemento sovrannaturale, sbilanciando così l’impianto narrativo giallo in favore di una più azzardata vena horror. Nel corso del film la visione di Virginia tornerà più e più volte, analizzata da diversi personaggi sotto svariati punti di vista; e mano a mano che tale visione viene sviscerata inizia a delinearsi un filo logico sempre più evidente, tanto da trasformare lentamente tutti questi elementi in indizi sempre più provanti... sino all’inesorabile finale.


Uno spettatore può essere più o meno portato a seguire un giallo, riuscendo ad anticipare la soluzione dell’enigma prima che venga svelata. Ma che siate esperti solutori oppure Sharlock Holmes alle prime armi, con il finale di Sette note in nero non ha nessuna importanza: è uno di quelli che sorprendono (e soddisfano) in ogni caso. L’intera narrazione è un meccanismo a orologeria perfettamente oliato, i cui tasselli s’incastrano mano a mano che la pellicola scorre sullo schermo. Gli ultimi 20 minuti sono una lezione di cinema che continua ad ammaliare anche a quarant’anni di distanza. E non solo Quentin Tarantino.


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