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L'uomo che rubò Banksy

30/11/2018 11:00

Marcello Perucca

Recensione Film,

L'uomo che rubò Banksy

L’uomo che rubò Bansky: fra la Palestina, l’Europa e l’America

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Il documentarista Marco Proserpio ha presentato al 36° Torino Film Festival L'uomo che rubò Banksy, interessante lavoro che affronta due temi principali, in questo caso profondamente connessi fra loro. Il primo è quello dei territori palestinesi, occupati da parte dello Stato di Israele e della condizione di segregazione in cui quelle popolazioni sono costrette a vivere quotidianamente. Il secondo è quello della Street Art, del suo significato e della liceità o meno della sua commercializzazione o esposizione in musei e gallerie d’arte.


Il film prende le mosse dalla città di Betlemme, tagliata in due dal Muro eretto nel 2000 dagli israeliani, che rende problematico agli abitanti qualsiasi spostamento e una vita normale. Proserpio parte da un fatto di cronaca. Nel 2007 il famoso writer Bansky, personaggio misterioso del quale non si conosce il vero volto, utilizzò la grigia parete del Muro e alcuni edifici privati di Betlemme per realizzare i suoi lavori che denunciavano la condizione di prigionia alla quale sono condannati i palestinesi. Tuttavia alcuni abitanti del luogo non gradirono le opere dell’artista inglese. In particolare a Walid, detto the Beast, taxista (e body builder) nativo di Betlemme, non piacque un disegno raffigurante un soldato israeliano a un check point che chiede i documenti a un asino. Spiega Walid che una delle maggiori offese che si può rivolgere a un palestinese è quella di dargli dell’asino. Ovviamente le intenzioni di Bansky non erano quelle di offendere, ma piuttosto di denunciare e condannare un gesto violento come quello del controllo dei documenti ai chek point. Walid, di per sé piuttosto scettico sull’utilità dei murales di Bansky – meglio sarebbe stato secondo lui se l’artista avesse donato una somma di denaro a sostegno dei campi profughi – sollecitato dall’imprenditore Mikael Kawanati, decise di abbattere il muro privato sul quale era stata realizzata l’opera, per poi rivenderla e guadagnarci dei soldi con cui sostenere la propria famiglia. Impresa non semplice perché si trattava di rimuovere una parte di un muro pesante qualche tonnellata evitandone la frantumazione e imballarlo in maniera tale da poterlo spedire. L’operazione, ovviamente compiuta senza il consenso dell’artista, andò a buon fine e il pezzo di muro con l’opera di Bansky venne venduto su ebay per 100 mila dollari a dei mercanti d’arte che l’acquistarono allo scopo di rivenderlo a loro volta. Tuttavia questa operazione, al momento, non è riuscita e l’opera di Bansky giace invenduta in un magazzino di South London.


L'uomo che rubò Banksy si snoda fra la Palestina, con le interviste allo stesso Walid e a molti altri personaggi locali e non, fra cui l’ex sindaco di Betlemme Vera Baboun che considera Bansky un genio rivoluzionario, l’Europa e l’America. Lo scopo è quello di ragionare su ciò che rappresenta la Street Art e sul senso etico e morale dell’appropriazione di questa forma di arte, estrapolandola dal suo ambiente naturale, cioè la strada, con tutte le limitazioni dovute alla sua fugacità a causa del deterioramento naturale dovuto agli agenti atmosferici o ad altri fattori. È artisticamente corretta l’operazione di rimuovere un qualsiasi lavoro di un writer dal suo contesto naturale per salvaguardarlo e preservarlo dentro un museo o, peggio, per utilizzarlo a fini commerciali? Come esempio nel film viene citato e ripreso lo street artist Blu che nel 2016, a Bologna, ha ricoperto di una mano di vernice tutte le sue opere realizzate in vent’anni di attività, cancellandole in segno di protesta per la decisione della municipalità e della onlus dell’ex rettore Fabio Alberto Roversi Monaco di prelevare alcune opere di street artist da ambienti degradati ed esporle in una mostra, spesso contro il parere degli stessi artisti. Il documentario di Proserpio, per la cui realizzazione sono occorsi circa sei anni, è un valido documento che permette di stigmatizzare e denunciare ancora una volta la politica di occupazione dei territori palestinesi da parte dello Stato di Israele e di ragionare sul concetto di arte e sulla sua commercializzazione.


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