
Nel 1926 una donna di nome Lillian Alling, immigrata dall’Europa a New York, sopraffatta dalla nostalgia di casa e senza un soldo, attraversò in solitaria gli Stati Uniti e l’Alaska per tornarsene a casa in Russia; i contorni incerti della vicenda contribuirono a trasformarla in una sorta di figura mitologica, figura che il film Lillian di Andreas Horvath omaggia e consacra definitivamente.
Lasciatasi alle spalle una Manhattan apocalittica, Lillian intraprende il suo viaggio nel nord degli USA portando con sé nient’altro che un barattolo gigante pieno di patatine. Attraversando un paesaggio che sembra uscito dalle fotografie di William Eggleston, dove i rari incontri sono con figure che hanno lo stesso rilievo di un cartellone pubblicitario, del relitto di un bus o di una bambola abbandonata, Lillian inizia a sembrare sempre di più una specie di donna caduta sulla Terra in mezzo a una umanità distante ed estranea. Il tizio che la insegue in mezzo al campo di grano o il poliziotto che la riporta indietro, i turisti nel canyon o i nativi americani nella prateria, la donna che la fissa nel negozio di vestiti usati o quella che le offre di che rifocillarsi: tutti personaggi iperreali e alieni che, in un paradossale ribaltamento di ruoli, finiscono per rendere quello di Lillian verosimile e familiare.
Raccattando lungo il cammino una nuova mappa, vestiti più pesanti e avanzi di cibo, la protagonista sembra guidata da una sorta di forza misteriosa che le permette di vivere quasi con nulla, sempre più in simbiosi con il regno animale e con le forze della natura, che crescono man mano che scompaiono le tracce dell’uomo. Insieme a Lillian, la natura e gli animali sono infatti i protagonisti di questa specie di documentario fantastico: dalle riprese aeree sulle zone desertiche si passa a quelle sui ghiacciai in Alaska, da una mosca posatasi sulla mappa a una balena fatta a pezzi sulla riva.

Eccettuato il breve dialogo iniziale (con un uomo che le propone di lavorare nella pornografia per ottenere il visto), Lillian resterà sempre in silenzio, fino all’epico finale in cui, guardando l’aurora boreale, si trasformerà (forse) in una balena. Il silenzio è una delle cifre stilistiche di questo film che, utilizzando solo pochi elementi sonori, catalizza l’attenzione sul personaggio: in sottofondo solo i rumori della natura e la musica drammatica (alla cui composizione ha contribuito il regista stesso); le rare voci umane sono invece mediate da una radio, un altoparlante, una ricetrasmittente della polizia. Cresce così l’impressione di isolamento ed estraneità. Partita sola, Lillian compierà un viaggio di progressivo allontanamento da tutti e tutto che finirà per assumere proporzioni sovrannaturali. Capolavoro nel capolavoro, le ultime scene in mare con la caccia alla balena, allusione a Moby Dick e alle ascendenze bibliche presenti anche in questo film gigantesco.
Al suo primo lungometraggio, Andreas Horvath realizza un’opera visivamente impressionante, affine per poetica e stile a Wim Wenders e David Lynch (in particolare I segreti di Twin Peaks e The straight story) con protagonista assoluta l’attrice semiprofessionista Patrycja Planik, che non recita ma vive sulla sua pelle un film soverchiante e indimenticabile. Per lei ma anche per noi.

Genere: drammatico
Titolo originale: Gli Infedeli
Paese/Anno: Austria, 2019
Regia: Andreas Horvath
Sceneggiatura: Andreas Horvath
Fotografia: Andreas Horvath
Montaggio: Michael Palm
Andreas Horvath
Interpreti: Patrycja Planik
Colonna sonora: Andreas Horvath
Durata: 90'