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The Manchurian Candidate

07/05/2010 11:00

Luca Lombardini

Recensione Film,

The Manchurian Candidate

Remake rischioso di "Va' e Uccidi" firmato da Jonathan Demme

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Le notti del Capitano Bennett Marco sono tormentate da incubi ricorrenti, durante i quali rivive la sua esperienza nel Desert Storm. La paura si trasforma in sospetto quando inizia a nutrire dei dubbi sull’ex compagno Raymond Shaw: le indagini lo porteranno a scoprire un complotto politico organizzato dalla multinazionale Machurian Global.


«L’originale è inarrivabile». Basterebbe la sincera ammissione di Jonathan Demme per inquadrare, senza tanti giri di parole, il remake di Va' e Uccidi. Non che The Manchurian Candidate lesini spunti di riflessione o analisi ma, a scanso di equivoci, è giusto sgomberare fin da subito il campo dai dubbi: il profetico capolavoro di John Frankenheimer è una cosa, la pur devota rilettura effettuata dall’autore de Il Segno degli Hannan e Il Silenzio degli Innocenti decisamente un’altra. Troppo ingombrante il paragone con l’originale per promuovere a pieni voti l’operazione, nonostante Demme si prodighi in ogni modo al fine di sostenere l’impari confronto.


Nel 1962 il pericolo era rappresentato dalla malata commistione di ideologie politiche, oggi sono le multinazionali a dover spaventare, grazie alla loro capacità di lavare i cervelli incrociando criobiologia e controllo mass mediatico. Demme, che di coscienza politico-sociale ne ha da vendere (Philadelphia, The Agronomist e Rachel sta per sposarsi sono lì a dimostrarlo), emula il maestro sistemando sul medesimo carrozzone della propaganda elettorale tanto i democratici quanto i repubblicani: identici i cerimoniali, simili gli scheletri nell’armadio appartenenti ai poli presunti opposti di un sistema malato; e amplifica il senso di disillusione nello spettatore contrapponendo lo sfruttamento militare del nero Denzel Washington alla complottata scalata al potere del “white trash” Liev Schreiber. Un gioco di equilibri telefonato ma efficace, che fa il paio con la perfida performance di Meryl Streep, diabolica si, ma incapace di spiazzare chi guarda come all’epoca riuscì a fare l’insospettabile Angela Lansbury. Demme, nel tentativo di attualizzare l’opera in questione e di personalizzarla, senza per questo allontanarla più di tanto dal prototipo, vira fin da subito sul versante tecnologico, sostituendo il controllo subliminale della mente con l’ultimo ritrovato dei microcip sottopelle. Ne vien fuori un film singhiozzante, indeciso tra l’omaggio e la semplice rivisitazione; tenuto spesso e volentieri in ostaggio da una visionarietà barocca ed esibizionista, mal completata da una sceneggiatura affannata e cavillosa, incapace di liberare l’evolversi degli eventi da una maniacale cura per i dettagli che finisce per conferire alla pellicola un’innegabile macchinosità di fondo. Difficile non storcere il naso quando si realizza quanto stucchevole sia la chiosa sugli eventi, per fortuna che a salvare il tutto provvede il meraviglioso climax del sottofinale: lezione di montaggio serrato misto a pathos praticamente indimenticabile. Una di quelle sequenze da mandare in loop nelle scuole di cinema.


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