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Piccolo grande eroe

29/10/2010 11:00

Valerio Ferri

Recensione Film,

Piccolo grande eroe

Nomen omen, come si suol dire...

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Nomen omen, come si suol dire. Il piccolo Yankee è il protagonista del bizzarro film d’animazione ideato in punto di morte dallo sfortunatissimo Superman Christopher Reeve, stroncato dalla malattia poco prima della produzione. Il nomignolo inventato dagli autori non è affatto casuale ed incarna in modo emblematico l’infantile rappresentazione di quel grande sogno americano, tipico dell’America post guerra civile, che forma le sue radici con l’insediamento dei primi coloni europei sulle coste occidentali, poi identificati proprio col termine Yankees. La storia è ambientata a New York e caso vuole che il giovane protagonista sia anche un grande appassionato di baseball, tifoso naturalmente dei NY Yankees. Non è finita qua, visto e considerato che il contesto cronologico è quello della Grande Depressione, ovvero uno dei momenti più duri della storia statunitense, ma paradossalmente anche un periodo in cui si è ripartiti da zero, dando a chiunque l’opportunità di risalire con volontà, sacrificio e soprattutto molta speranza.


Yankee Irving è un bambino cresciuto col mito dei New York Yankees e del loro grande battitore Babe Ruth. Come tutti i bambini della sua età, passa quasi tutta la giornata a giocare a baseball e sogna di imitare le gesta del suo grande mito, ma viene spesso deriso dai propri compagni di gioco per le sue scarse capacità atletiche. Dopo una visita allo stadio dei suoi idoli, Yankee sarà incolpato del furto della mazza di Babe, talismano segreto della sua bravura, causando il licenziamento del padre dal suo impiego di custode. In realtà il furto della mazza viene ordinato dal Presidente dei Chicago Cubs, stanco per le ripetute sconfitte della squadra per via delle grandi prestazioni di Babe, ma Yankee è l’unico a conoscere la verità. Decide così di agire autonomamente per scagionare se stesso e il padre e riportare la mazza al legittimo proprietario, con l’apporto inaspettato di una bizzarra palla chiacchierona.


Non avrà il marchio Disney, ma l’ultimo lascito di Reeve non ha poi molto da invidiare alle recenti produzioni della storica major d’animazione, specialmente considerato l’esiguo budget a disposizione. Oltre a condividerne la buona qualità in termini di soggetto, musiche e personaggi, vengono riprese a chiare lettere molte innovazioni stilistiche, nonché buona parte dei moderni messaggi che hanno contraddistinto la politica Disney degli ultimi anni. Tante le analogie con La principessa e il ranocchio ad esempio (sebbene sia arrivato dopo), in particolare i dettami morali non più basati sul semplice sogno impossibile, ma su un’attiva intraprendenza e spirito di reazione, trasformando l’imperativo “continua a sognare” in un più concreto “continua ad allenarti”, senza mollare la presa. Molti sono anche gli spunti tratti dai grandi classici, come la palla parlante, compagna di Yankee e disturbatrice esilarante, ma anche proiezione intima della coscienza del giovane protagonista. Non poteva mancare poi l’eterna lotta tra il bene ed il male, in questo caso dai confini molto rimarcati. Ultimo ma non meno importante è inoltre l’interessante viaggio del ragazzino, condito da svariati incontri che gli permetteranno di arricchirsi e trovare l’insperata fiducia nelle proprie potenzialità. Il grande lanciatore Babe Ruth è il Joe DiMaggio dei tempi andati, simbolo di speranza incorrotta nell’immaginario collettivo dell’America che aveva ancora bisogno di identificarsi con le storie fiabesche dei propri eroi. Nonostante questa ondata di rinnovamento insomma, il sogno e la speranza coinvolge comunque anche le nuove generazioni, dimostrando come l’industria dei lungometraggi animati a stelle e strisce cerchino ancora di dare una forte impronta etica alle proprie creazioni, sebbene con un pizzico di aderenza maggiore alla realtà.


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