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Potiche - La bella statuina

31/10/2010 12:00

Angelica Tosoni

Recensione Film,

Potiche - La bella statuina

È il 1977 e siamo nel nord della Francia...

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È il 1977 e siamo nel nord della Francia. Robert Pujol è un industriale dispotico e fedifrago che dirige con dispotismo una fabbrica di ombrelli portata in dote dalla moglie Suzanne. La donna è relegata a un ruolo decorativo e succube. Robert viene sequestrato dai dipendenti, perché accusato di essere autoritario e spietato. Grazie all’intervento di Suzanne si evitano le peggiori conseguenze. La donna inizia il suo percorso di autonomia e dirige l’azienda con successo. Robert però dopo un periodo di riposo torna e vuole sistemare le cose a modo suo.


Che pasticcio Potiche! Le buone intenzioni di Francois Ozon non bastano, neppure il proposito di critica sociale è sufficiente a riscattare una pellicola mediocre. La storia di Suzanne e della sua emancipazione resta sostanzialmente un giochetto da salotto, in cui la sceneggiatura funziona da scacchiera e i personaggi da pedine che di volta in volta cambiano ruolo. Ozon non riesce a liberarsi dalla rigidità della struttura teatrale della piece da cui è tratto il film, incapace di adattarsi all’apertura dell’impianto cinematografico. Nonostante le affermazioni del regista, non pare determinante la collocazione temporale di Potiche - La bella statuina, che sebbene sia rigidamente ancorata alla fine degli anni ’70, non ha né la contemporaneità dell’oggi né lo sguardo critico di ieri. Se non fosse per qualche comprimario che sfoggia un’acconciatura alla Farah Fawcett e un abbigliamento alla Starksy & Hutch non ci si accorgerebbe neppure dell’epoca in cui è ambientato il film. Il tempo teatrale in questo caso non è dilatato nell’atemporalità, ma pare sospeso in una confusione anacronistica e il risultato è un’opera disorientata.


Quale è il significato di Potiche? A dire il vero non si capisce e non si intuisce. L’evoluzione da bella statuina a donna politicamente impegnata, pare semplice e fredda, motivata solamente da una rivalsa personale su un marito cornificatore e subdolo, dal tradimento di una figlia ingrata e borghesuccia e da una sfida verso un amante ingenuo ed idealista. Suzanne, come d’altronde tutti i personaggi del film, soffre di una immobilità psicologica che la rende un burattino nelle mani di un regista che si diverte a cambiare le carte in tavola e ad osservare le sue reazioni. Se i personaggi cambiano lo fanno meccanicamente senza passaggi e senza giustificazione: in un fotogramma una donna con i bigodini parla con gli scoiattoli, esaltandosi se cucina senza servitù e poco dopo la stessa donna prende le redini di un’azienda, la guida con lungimiranza, senza averlo mai fatto prima. Da cliché a cliché, senza progressione e senza sviluppo. La distanza che Ozon impone tra il grande schermo e la platea non stimola una fruizione riflessiva e analitica, ma unicamente una visione non partecipata. Qualche battuta riuscita e qualche equivoco divertito fanno ben poco. Catherine Deneuve non riesce a scrollarsi di dosso un’allure forzata e leggermente altezzosa. Gérard Depardieu nei panni del politico Babin pare un po’ impacciato, un attore che anche quando realizza la pubblicità della passata di pomodoro risulta credibile. Su tutti gli interpreti spiccano Fabrice Luchini e Karin Viard rispettivamente Robert il marito di Suzanne e Nadège la sua segretaria. Che dire poi del finale? Sembra che il regista d’oltralpe non sapesse come venire a capo di una sceneggiatura noiosa, ma al contempo strabordante di spunti narrativi. La pluralità degli elementi messi in campo però non compensa la mancanza di emozioni e di forza drammaturgica. Adatto a chi non teme di annoiarsi.


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