Ogni discorso sui bambini diviene digressione sul tempo, sulla speranza e sul futuro. Con Oliver Twist, Charles Dickens, all'indomani della prima rivoluzione industriale, volle attirare l'attenzione dei suoi lettori e del regno britannico sull'ipocrisia su cui quest'ultimo si reggeva: se da un lato la più grande potenza industriale europea appariva rigogliosa produttrice di ricchezza, dall'altro poco si interessava alla malavita che dilagava, alle condizioni degli operai e allo sfruttamento del lavoro minorile. Dickens pose, per la prima volta nella storia della letteratura inglese, un giovanissimo protagonista al centro di un'avventura urbana (e sub-urbana), tra profittatori, ladruncoli, prostitute, e una girandola di malesseri che la società, in qualsiasi tempo e qualsiasi luogo, partorisce. Le vicende del piccolo Oliver sono un monito etico perpetuo: come diceva Einstein, «non esistono grandi scoperte né reale progresso finché sulla terra esiste un bambino infelice». E non esiste, aggiungeremmo noi, nemmeno futuro. La letteratura dickensiana, in quel fulgido focolare di sperimentazioni della cinematografia degli albori, si dimostra materiale d'ispirazione per la messa in scena di immagini in movimento. Da The Mistery of Edwin Drood del 1909 (vi è anche una trasposizione del 1914) a Great Expectations (1917), il nuovo mezzo di riproducibilità tecnica trova nei romanzi dello scrittore inglese storie fortemente adattabili al grande schermo. E la vicenda del trovatello dai genitori ignoti, assorbito dal sostrato malavitoso londinese, sembrava avere la carica emotiva necessaria per commuovere e apprendere un pubblico avido di racconti visivi. Frank Lloyd dirige il quarto (ad allora) adattamento delle avventure del piccolo eroe, e se l'Oliver di Dickens fu il più giovane protagonista di un romanzo in lingua anglosassone, quello del regista di origini scozzesi fu il primo ad essere interpretato da un bambino (in quei panni prima di allora più che altro attrici, fra le quali si ricorda Marie Doro nel 1916). La star de Il monello, Jackie Coogan, si cala nel personaggio di Lloyd con il carico di esperienza attoriale maturata con Chaplin l'anno precedente - evidente ad esempio nella gag iniziale dell'ospizio, quando messo a giro e costretto dagli altri ragazzi a chiedere più cibo, finge di non terminare mai il pasto (in una ricerca infinita di “ultime” briciole dalla scodella) per non ottemperare all'onerosa coercizione dei compagni. Ma è soprattutto il dramma del giovane vagabondo, rimbalzato da una vessazione all'altra, che l'enfant prodige interpreta ispirando empatia e apprensione. Lloyd ripercorre proprio le vicissitudini di Oliver, dalla morte della madre poco dopo il parto, al disagio nell'orfanotrofio, alla fuga dal becchino presso cui diventa assistente e al rifugio offerto al giovane da una banda di borseggiatori, sfruttatori e delinquentelli capeggiata dal malvagio Fagin. Il regista, oltre ad un sapiente ritmo impresso alla narrazione, fa sfoggio di perizia cinematografica, usando con disinvoltura la macchina da presa e alcune tecniche di grande moda in quegli anni come la colorazione della pellicola (imbibizione), qui utilizzata per distinguere le ambientazioni (suggestivi i notturni nei sobborghi londinesi) o acutizzare i picchi di tensione, come nella sequenza dello sparo a Oliver. Non considerato il miglior adattamento del romanzo di Dickens (quello di Lean del 1948 è di gran lunga superiore) e nemmeno la migliore prova di Lloyd (premiato per successivi lavori, tra cui spiccano gli Oscar di Trafalgar e de La tragedia del Bounty). Ricordato soprattutto, oltre che per il talentuoso Coogan, per il trucco del trasformista Lon Chaney, che fa del capobanda Fagin uno strisciante e viscido vecchio.