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Carter

14/02/2011 12:00

Luca Lombardini

Recensione Film,

Carter

Il sicario Jack Carter ritorna nella natia Newcastle per far luce sulla scomparsa del fratello, ufficialmente deceduto in seguito ad un incidente stradale in st

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Il sicario Jack Carter ritorna nella natia Newcastle per far luce sulla scomparsa del fratello, ufficialmente deceduto in seguito ad un incidente stradale in stato d’ebbrezza, ma in realtà freddato da un plotone d’esecuzione facente capo alla malavita locale.


Interno giorno. Una coppia amoreggia sul letto disfatto e cigolante, due uomini entrano di soppiatto nella stanza: «Facci posto Jack». La spavalderia dei galoppini responsabili del prelievo coatto s’infrange sulla visione di una doppietta che, come per magia, salta fuori da sotto il materasso. L’uomo, nudo come un verme ma letalmente armato, scorta i due fino al vialetto d’ingresso rispedendoli al mittente dopo aver pungolati con serafici e ripetuti «out!». L’anziana vicina, sconvolta dall’apparizione di fianco, lascia frantumare a terra la bottiglia del latte. Buona parte della devastante forza visiva di Get Carter è custodita nella mirabilia di questa singola sequenza: concentrato di tecnica e registri emotivi che caratterizzano l’intera prima fatica dietro la macchina da presa di Mike Hodges. Il regista consegna agli archivi della settima arte l’opera grazie al successo della quale verrà ricordato stabilendo, con l’originale testo di trasposizione (Jack’s Return Home di Ted Lewis, romanzo tradotto in italiano con il titolo Vattene Jack!), l’identico rapporto intramediatico che, volendo forzare una similitudine tricolore, caratterizzerà buona parte della produzione di Fernando Di Leo, ovvero quella indissolubilmente legata alla corretta percezione e successiva rielaborazione sul grande schermo dei racconti di Giorgio Scerbanenco contenuti nella raccolta Milano calibro 9.


Get Carter fa perno sulla sua matrice letteraria, in quanto ammirevole esempio di aggiornamento dei parametri tradizionali statunitensi coniugati in base alle proprie esigenze di costruzione e rappresentazione britannica. L’icona alla quale presta il volto Michael Caine, infatti, altro non è che la versione riveduta e corretta di ciò che la scuola hard boiled di chandleriana memoria ha lasciato in eredità: Jack Carter incarna l’epigono malavitoso del detective privato diplomato alla scuola dei duri, ribaltamento criminale della figura del giustiziere pulp che, nonostante la lucida e consapevole scelta di vivere nell’illegalità, conserva intatti i riferimenti marlowiani di fondo; uomo solitario e tutto d’un pezzo, spietato nei confronti di chi intralcia il suo codice morale, bramato dalle donne, destro di ferro e pistola, pardon doppietta, pronta. Su questo assioma di base lavora con chirurgica minuzia Mike Hodges (autore anche dello script), magistrale nel tracciare, tra i vicoli uggiosi della periferia di Newcastle, i contorni sentimentali e atmosferici di un noir livido, cadenzato nei ritmi rallentati dall’indimenticabile tema arrangiato da Roy Budd e sostenuto da un calibrato rincorrersi di timbri narrativi che, con una scioltezza d’amalgama prossima al miracolo filmico, lasciano che il gangster movie si accompagni al giallo, mentre squarci di black comedy giocano a rimpiattino con il dramma familiare. Get Carter è cinema inglese mutuato dall’attento studio dei classici hollywoodiani: non c’è vendetta che possa comprare il biglietto valido per il viaggio sul treno della redenzione. Jack Carter è il fratello maggiore del Dix Handley (alias Sterling Hayden) di Giungla d’asfalto: il destino romantico di ogni antieroe criminale che si rispetti è quello di esalare l’ultimo respiro proprio quando il più sembra fatto. Aperta campagna o una spiaggia lambita dalle onde poco importa.


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