Dopo cinque anni di assenza Jack Carter torna a casa per indagare sulla scomparsa del fratello Frank. Tutti, tranne lui, sono convinti che sia morto per le conseguenze di un incidente stradale causato dall’alcool. Questione di sentimento e magari di sfumature. Ecco perché un film pur volenteroso e godibile, come La vendetta di Carter, non può dirsi pianamente riuscito. Vada per il tempo che passa e di conseguenza per le necessità visive che un remake datato 2000 non può permettersi di omettere al fine di ingraziarsi il grande pubblico ma, da qualunque angolatura lo si guardi, la rivisitazione statunitense del classico senza tempo Get Carter non possiede pregi talmente evidenti per essere avvicinata al suo illustre prototipo. Eppure Stephen Kay si dimostra regista artigianalmente abile, probabilmente non dalla spiccata personalità, nonostante ciò comunque in grado di innervare la sua pellicola affinché tenga il passo per buoni tre quarti di durata. Sylvester Stallone, dopo i primi Rocky e Rambo in uno dei ruoli meglio riusciti della sua parabola discendente assieme a quello dello sbirro di Cop Land, ben interpreta un personaggio devastato dal senso di colpa, attaccato alla sigaretta e per nulla rassegnato alle cause accidentali della dipartita fraterna. Sly, insomma, funziona, nonostante il suo Jack Carter sia, rispetto all’originale, tagliato con l’accetta, quasi esclusivamente action e addolorato, palesemente privo delle sfumature autoironiche retaggio del 1971 e lontano anni luce dall’eredità letteraria dalla quale traeva spunto vitale l’icona primigenia. Da buon prodotto di cassetta qual è, La vendetta di Carter paga dazio alla matrice inglese omaggiandone la realtà che solo superficialmente conosce, quindi pioggia perenne e “londinese”, cammeo auto recluso e malvagio di Michael Caine, alcuni riferimenti a un certo cinema modaiolo in stile Guy Ritchie (vedi il corpo a corpo nell’ascensore), ovvero bizzoso, scazzottante e video clip nelle sue accelerazioni goliardiche che, almeno sulla carta, dovrebbero esaltare l’auspicabile alchimia eighties dei dinosauri Stallone e Mickey Rourke, quest’ultimo, invero, poco più che tappezzeria a corollario del progetto, malriuscito, di remixare sulla maschera di Sly l’assolo pressoché perfetto offerto da Michael Caine e diretto con maestria da Mike Hodges. Accessibile e piacevole per buona parte della sua esteriore semplicità, La vendetta di Carter buca nell’acqua il tempo di un epilogo improponibile e totalmente sbagliato che, oltre a realizzarlo nella rivalsa, consegna al protagonista redenzione e speranza di una nuova vita. Tutto il contrario del fatale e perdente romanticismo all’interno del quale si concentrava la vertigine conclusiva dell’originale. Questione di sentimento e, perché no, di sfumature.