L’universo è diviso in nove Regni collegati da tunnel spazio-temporali. Tra essi troviamo la Terra e due mondi eternamente in conflitto: Asgard e Jothuneim. L’ultima guerra tra asgardiani e Giganti di Giacchio si è risolta a favore dei primi, sancendo l’inizio di un periodo di pace fortemente desiderata da Re Odino di Asgard (Anthony Hopkins) per porre fine a carneficine e distruzione. Un atto di ribellione delle forze nemiche scatena però un’improvvisa crisi diplomatica. Mentre Re Odino vorrebbe far luce sulla vicenda evitando di provocare una nuova battaglia, l’arrogante e ambizioso principe Thor (Chris Hemsworth) lo accusa di scarso temperamento e sembra disposto a tutto pur di dimostrare le sue doti da sovrano, anche a costo di tradire il padre.
Con l’avvento del 3D e delle recenti tecnologie più all’avanguardia il cinema resta sul percorso intrapreso da qualche anno, affidandosi il più delle volte a trasposizioni o rielaborazioni di ogni genere per puntare su brand di successo già collaudati. Dopo X-Men, Spiderman e Iron Man (solo per citarne alcuni) la Marvel, di recente acquisita dal gruppo Disney, continua a investire sulle proprie vecchie glorie e stavolta è il turno delle atmosfere nordiche di Thor. Il progetto viene affidato al regista nordirlandese Kennet Branagh, un passato con molte influenze “classiche” e direttore di numerosi rifacimenti shakespeariani. L’insolito accoppiamento testimonia tutte le buone intenzioni degli studi Marvel nell’offrire un prodotto innovativo anche sotto il profilo dei contenuti prettamente narrativi e linguistici, senza ricorrere troppo all’ormai canonico taglio kolossal blockbuster. Sebbene non si rinunci agli avveniristici effetti speciali che candidano prepotentemente la pellicola al “premio Avatar”, non va ignorata la meticolosità dei produttori nel cercare di ricreare una sorta di empatia con il pubblico e con i fan in particolare, attraverso la cura di dettagli meno tangibili quanto significativi, a cominciare dal linguaggio aulico e imponente tipico del protagonista nel fumetto.
È quasi proibitivo non rimanere esterrefatti di fronte alle maestose scenografie ricreate in CGI e dal frequente (ab)uso del 3D, senza contare la cura maniacale riservata a trucchi e costumi. Dopo l’iniziale senso di smarrimento misto a eccitazione, ci si accorge però a caldo che la macchina milionaria messa in moto per destare ammirazione nello spettatore non sia certo così memorabile, quanto più preposta ad un effimero megaimpatto visivo di meraviglia destinato pian piano ad affievolirsi. Le cause sono prima di tutto endogene, da ricercare quindi nella sfera tecnica, dove non mancano errori madornali in cui la sensazione è piuttosto quella di sentirsi in un semplice videogioco, come la scelta di disegnare la folla nella sala del trono a mo’ di pupazzetti in uno stadio virtuale. Lo stesso Branagh, condizionato forse fin troppo dai suoi produttori, non pare riuscire nel complicato intento di imporre un marchio di profondità e teatralità al susseguirsi delle scene e a dialoghi piuttosto scontati e superficiali; intervallati dai soliti cliché hollywoodiani costituiti da battutine alla lunga nauseanti. Il risultato è pura banalità e retorica non indifferente, mandando a farsi benedire le belle parole sui conflitti tra padre e figlio, sulla gelosia tra fratelli e sulle fantomatiche capacità terrestri di trasmettere umiltà e virtù; temi che a detta della troupe sarebbero le variabili vincenti e innovative del film. Perfino Natalie Portman – una giovane astrofisica umana di nome Jane Foster, che non ha nulla a che vedere con l’interpretazione dell’omonima collega in Contact - non è molto a suo agio in un ruolo così privo di personalità e designato a quanto risulta solo ad ammiccare continuamente al possente protagonista tutto muscoli e poca sostanza.