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X-Men: L'inizio

07/06/2011 11:00

Luca Lombardini

Recensione Film, CineComics, x-men,

X-Men: L'inizio

Infanzia e giovinezza di Charles Xavier e Erik Lensherr, destinati a diventare, rispettivamente, il Professor X e Magneto...

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Infanzia e giovinezza di Charles Xavier e Erik Lensherr, destinati a diventare, rispettivamente, il Professor X e Magneto. Un'amicizia che si tramuta in rivalità, sullo sfondo le crescenti tensioni belliche tra Stati Uniti e Russia durante l'epoca JFK, quando il mondo venne a conoscenza dell’esistenza dei mutanti.


L'ultimo capitolo dell’ormai celebre saga sugli uomini X è forse l’episodio maggiormente “singeriano” dell’intera epopea cinematografica iniziata nel 2000. Matthew Vaughn porta sul grande schermo un prequel che dichiaratamente si rifà alle origini del progetto, vuoi per un incipit ripreso pari pari dal primo X-Men, vuoi per un soggetto, curato guarda caso proprio da Bryan Singer, che lascia trapelare evidenti rimandi di fondo alla poetica dell’autore de I soliti sospetti: regista da sempre invaghito delle dinamiche malefiche appartenenti ai suoi personaggi, sani portatori di malvagità (assieme alla Seconda Guerra Mondiale la vera ossessione del cineasta in questione) pronti a passarsi il testimone ad un passo dall’epilogo narrativo. Di X-Men: L'inizio affascina la struttura circolare, dove lo step iniziale riprende un film di Singer mentre quello conclusivo altro non fa che cristallizzarne il pensiero di fondo: il male non muore mai, è per sua natura immortale e, nel peggiore dei casi, cambia testimone per sopravvivere, riproducendosi, in un futuro eterno e prossimo nelle gesta del nuovo prescelto. Ecco che il passaggio di consegne tra il perfido Sebastian Shaw e il megalomane Magneto non può non rimandare a quanto avvenne durante l’atto finale de L’Allievo (1998), dove il decrepito e morente Ian McKellen investiva, dopo averlo sagacemente allevato, il giovane Brad Fenfro della sua mortale aura.


Il potenziale di X-Men: L'inizio sta tutto nel suo alfa e omega di racconto, un cinecomics dal passo misurato, classico nel suo incedere eccessivamente chiarificatore e al tempo stesso maturo nell’animo, in quanto prodotto possibile perché figlio dell’era post Watchmen, episodio politico che ha abituato il pubblico ad amalgamare storia vera, coscienza del messaggio e intrattenimento allo stato puro. Matthew Vaugh riparte proprio da lì, non esita a tirare in ballo l’alba della Guerra Fredda e la dicotomia interpretativa che scandisce la vita degli amati/odiati mutanti, sfruttati e poi temuti proprio come i personaggi affrescati da Alan Moore e trasposti da Zack Snyder. Dopo Kick-Ass (a guardarlo bene un Watchmen in piccolo dall’animo giocherellone) un bel banco di prova, superato non senza qualche affanno (decisamente troppi i 132 minuti di durata), altrettante trovate umanizzanti (gli amletici dubbi di La Bestia e Mystica che tanto ricordano i sofferti interrogativi di Rogue) e citazioni probabilmente involontarie (la riunione dei giovani mutanti nella stanza della CIA fanno tornare in mente la serie tv britannica Misfits). Niente a che vedere con la perfezione di X-Men 2 o il filosofeggiare arguto di The Last Stand. Dopo il mezzo fiasco di X-Men le origini: Wolverine, però, era lecito aspettarsi il peggio. Così non è andata. X-Men: L'inizio è un bell'accontentarsi.


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