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Mantova Film Fest, il resoconto della 13esima edizione

26/08/2020 16:09

Cristiano Salmaso

Festival, Mantova Film Fest, Film Italia,

Mantova Film Fest, il resoconto della 13esima edizione

In un anno difficile, anche per il cinema, il Mantova Film Fest si conferma una rassegna interessante: film vincitore è Picciridda di Paolo Licata

 

 

 

In un anno difficile, anche per il cinema, il Mantova Film Fest si conferma una rassegna interessante: film vincitore è Picciridda di Paolo Licata

 

 

Il Mantova Film Fest tira fuori la bacchetta magica e riesce a realizzare la sua tredicesima edizione in un anno funesto anche per il cinema e i suoi festival, tra rinvii, cancellazioni e versioni ibride con l’online. Un'edizione, questa mantovana, pienamente riuscita anche grazie alla splendida cornice, all'ottima organizzazione, all'accoglienza. Esordi italiani in concorso come da tradizione (quest'anno sono sette) e cinque graditissime opere prime internazionali che, al netto di ogni esterofilia cinematografica, vincono facile sui nostri. Opere comunque più che dignitose in un valido programma che trova un filo conduttore nell'ambientazione, sempre periferia di un grande centro o piccolissimo paese, nella sceneggiatura, del regista stesso quando non è proprio un soggetto originale, e infine nella presenza ricorrente di bambini o adolescenti, protagonisti proprio delle opere più rilevanti. Il pubblico premia Paolo Licata per Picciridda ma la nostra vincitrice è Nunzia di Stefano con il suo Nevia.

 

L'etimologia della parola Magari è felicità, quella che per un attimo riescono forse a toccare i protagonisti del film. Alma, Jean e Sebastiano sono tre fratelli che vivono a Parigi con la madre e raggiungono il padre in Italia per le vacanze di Natale; tra i genitori non scorre buon sangue perchè si amano ancora, come spera Alma che forse non ha torto. Il padre Carlo sogna di realizzarsi come sceneggiatore (ma la sua amante lo aiuta di nascosto) e sembra amare più se stesso e il suo cane che la famiglia. Attraverso una serie di piccoli incidenti, verranno a galla i conflitti con il figlio più grande ma anche il desiderio di continuare a stare tutti insieme. Ginevra Elkann sfoglia con grazia le pagine di questo album di famiglia dal respiro internazionale (e così il film), composto da piccole immagini che hanno la forza di un ricordo indelebile. Un'opera intima e sussurrata con un'aria da vecchio filmino delle vacanze, futile solo in apparenza, quasi rohmeriana.

 

Si muore solo da vivi si apre con una bella sequenza: il capitano di una nave e una bambina che guarda in macchina tenendo in braccio un cane, una specie di sogno felliniano sulla “Stradivari” che tornerà in pochi altri momenti, gli unici riusciti del film. Perchè la storia di Orlando, giovane non più così giovane che rimpiange i tempi perduti con la sua band e l'amore della sua vita e prova a riprenderseli, è davvero troppo scontata nei suoi sviluppi, soprattutto con attori e dialoghi che sono quelli di una fiction già vista e stravista (e proprio i “non attori” Red Canzian e Amanda Lear sono i personaggi meglio riusciti). Il regista prova a seguire il solco tracciato da Radiofreccia ma non gli riesce e il telefonatissimo finale sentimentale, con il protagonista che sembra più Fabio De Luigi che Hugh Grant, di certo non aiuta. Un film ingenuo, innocuo e leggero che può funzionare per un passaggio televisivo ma che risulta davvero troppo debole per il grande schermo.

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La Picciridda con i piedi nella sabbia si chiama Lucia, ha undici anni e vive a Favignana con la nonna dopo che i genitori sono emigrati in Francia in cerca di lavoro. Donna Maria è una donna dura, chiusa e taciturna e non vuole che la nipote abbia contatti con la famiglia della sorella; solo alla fine verranno a galla i motivi di tanta ostilità ma, a quel punto, sarà troppo tardi per tutti. Ambientato negli anni '70, il film affronta di petto le difficoltà e anche il dramma di essere donna in una Sicilia che sembra uscita da un passato assai più remoto. La giovanissima inteprete si muove bene dentro una storia disperata ma non proprio originalissima, in mezzo a clichè estetici ormai sfiniti con santi, saggezza popolare, donne in nero e le solite immagini che rischiano di spedire l'ennesima cartolina dalla Sicilia firmata Tornatore. Proprio grazie alla figura di Lucia il film riesce a tenere (ben riuscita l'amicizia particolare con la compagna di classe) ma quando la storia prende il sopravvento si avvia verso una conclusione vicina al trash. Sicilia un pò tarocca e un po' pacchiana che può essere anche scambiata per vera e charmant, soprattutto all'estero: «Un film stupefacente che va dritto al cuore» pare abbia dichiarato Oliver Stone.

 

A Ponticelli, quartiere periferico di Napoli, una famiglia tutta al femminile divide gli spazi in una casa container. Nevia ha diciassette anni, cresciuta troppo in fretta in una realtà di miseria e soprusi; l'arrivo di un circo le darà l'opportunità di trovarsi un lavoro onesto e di conoscere qualcuno che sembra in grado di accudirla. Film una spanna sopra gli altri in gara, con una buona sceneggiatura, interpreti all'altezza e una regia che sta addosso alla protagonista e alla sua storia in un modo che ricorda i Dardenne. Un buonissimo esordio questo di Nunzia De Stefano, vicino al primo Matteo Garrone nelle cupe atmosfere, a Gomorra nell'uso del dialetto e a Dogman nella fotografia della periferia degradata; non è un caso che proprio Garrone (anche suo ex marito) ne sia il produttore. Un no deciso alle melodie al pianoforte: se non ci fosse stato commento musicale, la pellicola ne avrebbe forse guadagnato ulteriormente in durezza, rigore, maturità espressiva. L'arrivo del circo può sembrare poi soluzione un po' troppo stereotipata, anche esteticamente, ma si riesce a non cadere nella retorica della diversità come risorsa. Un film in grado di varcare i confini della nostra periferia, dalla quale la stessa Nevia si vuole allontanare.

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A leggere la sinossi de Il regno ci si poteva aspettare un film intelligente, curioso, fuori dagli schemi: si racconta di Giacomo, che all'apertura del testamento paterno scopre non solo di avere una sorellastra ma soprattutto che essa vive in una comunità, costituita dal defunto padre, sulla quale egli regnava come se si trovasse nel Medio Evo. Il protagonista entra così in questa favola comica e grottesca che fatica però a far ridere e a reggersi in piedi, con interpreti deboli e gag da cinepanettone; il film prova a seguire la lezione di precedenti più nobili, come L'armata Brancaleone e Non ci resta che piangere, ma finisce per assomigliare molto di più ai film in costume dei Vanzina con la coppia Boldi-De Sica.

 

Dopo diverse esperienze al cinema e in televisione, Marco Bocci passa dietro la macchina da presa e porta sullo schermo un suo stesso romanzo, A Tor Bella Monaca non piove mai. Storia di due fratelli costretti a tornare a vivere con i genitori che finiscono per scambiarsi i ruoli di buono e cattivo. Solita periferia, solito romanesco: il film fatica a ingranare ma poi trova la marcia e arriva fino alla fine senza tante sbandate. Certo non indimenticabile e Bocci è troppo legato agli schemi della tanta televisione fatta, ma la pellicola si fa vedere. Gli attori stanno finalmente nei loro personaggi e della periferia romana ne esce una riuscita e inedita panoramica verticale.

 

Rocco è un adolescente isolato da tutti che sogna di partecipare a un talent come ballerino e diventare Famosa; riuscirà a coronare il suo sogno e a farsi dei veri amici ma la sua favola non sarà poi così lieta come sembrava. Un racconto indeciso e immaturo come il suo protagonista, che si rivela però meno innocuo delle apparenze: si comincia con Rocco che sembra dentro un film indipendente americano, si fatica poi a contestualizzarlo in una bucolica Ciociaria quand'ecco che la storia sembra decidersi per la strada del new adult dramedy, con la parte del viaggio a Roma e del sogno che finisce prima di cominciare davvero. Non mancano colpi di scena spiazzanti anche per incoerenza stilistica e il film rischia di respingere lo spettatore ma, al netto delle suo ovvie figure (l'amica emo, il padre alcolista, la zia strana) trova un finale tanto riuscito quanto inaspettato e si fa ricordare più di altri film più ordinati. Originale, coraggioso, “sbagliato”.

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