Alcune delle migliori docuserie di Netflix riguardano casi di true crime: Il quarto processo, sul caso Sean Ellis, non fa eccezione
Uno dei maggiori punti di forza di Netflix è la produzione di documentari e docuserie che hanno alzato nettamente l’asticella. Basti pensare che Making a Murderer ha portato a una petizione firmata da centinaia di migliaia di persone al fine di ottenere la grazia per Steven Avery, protagonista della fortunata docuserie. Dopo si sono succedute serie di successo come Tiger King, The Confession Tapes, The Innocent Project, Giù le mani dai gatti, Wild Wild Country. La maggior parte delle docuserie riguarda casi di true crime, e in quest’ottica si contestualizza anche Il quarto processo.
Di che cosa parla Il quarto processo
La storia è quella di Sean Ellis, incarcerato per 22 anni per l’omicidio di un poliziotto. Vale la pena chiarirlo sin da subito, come del resto fa esplicitamente la serie: Sean Ellis è innocente. Parte proprio da questa certezza il documentario, lungo 8 puntate, che porta alla luce passo dopo passo gli sviluppi di una vicenda al limite del surreale. Gli avvocati di Sean Ellis, grazie anche all’aiuto del team di Spotlight del giornale The Boston Globe, che ha ispirato il film Premio Oscar, riescono ad aprire il vaso di Pandora di un distretto di polizia dove regnava sovrana la corruzione, la manipolazione di prove, gli abusi di potere e il razzismo.
A dirla così sembra l’ennesimo caso di un ragazzo di colore vittima della polizia, ed è esattamente così. A sottolineare la sistematicità di una cultura restia al cambiamento. I casi recenti di George Floyd, di Breonna Taylor e di tanti afroamericani assassinati dalla polizia statunitense rimbombano ancora nelle nostre anime: Il quarto processo non fa che ricordarci che non si tratta di casi isolati ma di una sistematicità orribile.
The Badge of Shame
Il distintivo della vergogna, Badge of Shame, è il titolo di un articolo dell’11 Marzo 1997 del Boston Herald ed è anche il titolo di un episodio di Il quarto processo che racchiude in sé una verità assoluta e innegabile: ogni volta che un poliziotto commette un illecito, una forma di brutalità, una forma di abuso, rappresenta il marchio di Caino, il simbolo della vergogna. Ci si chiede spesso perché queste vicende accadano, ed in parte un film come Detroit di Kathryn Bigelow aveva provato a dare una risposta. Questa sensazione di loop continuo e senza apparente via d’uscita non fa che accrescere la certezza di questa ostinata disuguaglianza sociale e di questo razzismo che imperversa.
Vedere Il quarto processo fa male allo stomaco, fa arrabbiare e fa sentire per tanti versi impotenti. Allo stesso tempo tutti questi movimenti emozionali fanno si che la presa di coscienza sia sempre più radicata e che, anche nel piccolo, si cerchi di fare qualcosa per cambiare un mondo marcio e malato.
Perchè vedere Il quarto processo su Netflix
La docuserie è girata con una puntualità e un’eleganza incredibili. Ripercorre passo dopo passo le vicende di Sean Ellis, dei poliziotti coinvolti e di conseguenza di tante persone che negli anni hanno ricevuto soprusi da quelle forze dell'ordine che avevano giurato di proteggerli. Le sequenza delle ricostruzioni del delitto e di alcuni passaggi del processo sono realizzate in animazione e rendono, dal punto di vista registico, l’opera ancora più disarmante.
Sean Ellis ci guida attraverso la sua storia con una dignità e un coraggio che mettono i brividi e commuovono, lasciando trasparire nonostante tutto sempre fiducia verso il futuro. È proprio lì che la rabbia della spettatore si trasforma in forza reazionaria pulita, che non ammette violenza. Viene da chiedersi quale sia il senso della giustizia e cosa possiamo fare noi per cercare di cambiare il sistema.