Con mirati richiami alla poetica cinematografica francese tanto amata da John Woo, The Killer è un omaggio al cinema d'azione europeo (l’inizio è un omaggio ben riscritto di Frank Costello Faccia D’angelo di Jean-Pierre Melville). Il regista amalgama la filosofia del sentire, prettamente orientale, con l'esaltazione scenografica tanto incensata dagli occidentali. Lo stile di Woo è inimitabile: è innanzitutto immagine, coerenza scenografia e coreografia. Le sparatorie non sono confusionari scontri a fuoco, bensì danze ritmate dal rombo dei proiettili, praticamente poetica hard-boiled nuda e cruda. La storia è quella di un Killer (Chow Yun-Fat), che sfigura erroneamente, dopo un terribile scontro a fuoco, una giovane ragazza rendendola parzialmente cieca. L'angosciosa per tale misfatto lo ossessionerà a tal punto da far maturare in lui un profondo senso di colpa. Uno status emotivo coerentemente raffigurato dal regista in simboliche e drammatiche inquadrature: l'eroe si mostra vulnerabile, ascolta e sente ogni tipo di sentimento umano; non è più una macchina da guerra volta alla distruzione illogica ma un cuore infranto che cerca la divina assoluzione. A differenza degli antieroi violenti e oltremodo ridicoli di un periodo cinematografico ben noto - se non altro rimangono delle icone mono-espressive del cinema americano degli '80 - Woo forgia la sua opera di sentimento, passione e tragedia. La vendetta non è violenza allo stato grezzo (sopraffare l'altro per ripagarlo con la stessa moneta), è invece sacrificio necessario volto alla tutela degli affetti, dell’amicizia, dell’amore incondizionato e della stima. Temi semplici, ma nei quali il regista ha sempre creduto. L'originalità qui risiede nel contrasto: sangue e abbracci, esplosioni e silenzi. Memorabile la scena in cui il protagonista - interpretato dal numero uno dell'action-movie made in Honk Kong Chow Yun-Fat - consapevole di essere stato tradito dall’amico, riflette pensieroso sul suo futuro degustando il sapore della vendetta, brandendo la pistola in una mano e fumando un sigaro con l'altra. Tra le due invenzioni visive più imitate e acclamate, si annoverano le "Double Gun Actions" (l'utilizzo di due pistole contro un solo bersaglio) e lo "Stand-off" (scontro ravvicinato tra due o più persone che si puntano reciprocamente la propria arma). Quentin Tarantino ad esempio ne fa sfoggio nel suo Le Iene, mentre nel 2001 Rockstar rivoluzionò il mercato videoludico con Max Payne, un'avventura noir che parla solo il linguaggio della violenza, enfatizzata dall'effetto Bullet Time (il cosiddetto rallenty o slow-motion) - altro marchio di fabbrica del maestro John Woo. Le sole pecche riscontrate nel film in questione (sebbene non riconducibili al regista) sono da attribuire all’insulso e fuori luogo doppiaggio in italiano (un esempio è il soprannome “Testa di Gambero” trasformato in un disneyano “Topolino") e allo scostante montaggio finale. Il motivo è ben noto a tutti: la versione originale, reperibile nel dvd francese edito da HK Video, ha uno sviluppo della trama differente - supportato da un mole spropositata di scene aggiuntive - rispetto alla scarna versione distribuita in Italia da BiM. Ma tutto questo fa parte del passato: se John Woo, oggi, avesse ancora voglia di guardarsi allo specchio per capire il motivo del suo oblio creativo post Hollywood, non ritroverebbe più lo stesso giovane e promettente regista delle origini, ma solo l'immagine sbiadita di colui che fu, a suo tempo, un grande innovatore del cinema d'azione.