
Emerso anche lui in quella generazione di registi che negli anni '70 rilanciarono il cinema statunitense (frequentò la stessa università di Francis Coppola, che poi produsse il suo primo film), Ballard ne è uno degli esponenti più atipici. Lo è per motivi di età, ma anche per una produzione, tanto saltuaria (è il suo sesto film) quanto coerente. Da sempre interessato al rapporto tra l'uomo e l'animale, così come alla dialettica tra l'umano e la natura, in Duma racconta il rapporto tra un ragazzino e un ghepardo. Partendo dal ritrovamento, raccontandone la crescita, e arrivando al punto il cui il protagonista scapperà dalla città per riconsegnare l'animale all'ambiente che gli compete. Per quanto il soggetto non rappresenti il massimo dell'originalità, Duma ha dei punti di forza molto spiccati che lo distinguono dall'ammasso omogeneo e informe di family movies sul genere. La rinuncia pressoché totale alle carinerie, e quindi all'accondiscendenza del pubblico casuale; la macchina da presa di Ballard osserva l'evolversi del racconto con uno sguardo quasi documentaristico, che emerge soprattutto in particolari momenti del film. Nel raccontare il rapporto tra il ragazzo e l'animale, non cercando di annullarne la diversità, ma sottolineandola: in un rapporto fatto di silenzi, gesti e sguardi; o nel mostrare l'Africa, deserti, laghi e foreste, indugiando sulla fauna locale con generosi primi piani. È gioia di riprendere, quasi con avidità, questo triangolo uomo-animale-natura con tutti i relativi (e malickiani) rinvii metafisici del caso, il pregio principale del film: gioia vera e spontanea, ben diversa da quella ipocrita e stancante dei “normali” film di genere. Perché se questo è un family movie (e, a conti fatti, lo è), l'accezione va utilizzata in questo caso con valenza positiva: un film, è il caso di dirlo, come oggi non se ne fanno più.