John Seale firma la fotografia di questa pellicola vincitrice di 9 premi Oscar nel 1998: come "miglior film", "miglior regia", "migliore attrice non protagonista", "miglior fotografia", "miglior montaggio", "miglior scenografia", "migliori costumi", "migliore colonna sonora drammatica", "miglior sonoro". Anthony Minghella, regista consacrato al cinema e divenuto icona di stile e di costume grazie al film in questione, muore improvvisamente il 18 marzo del 2008, lasciando il cinema italiano, di cui era grande estimatore, muto, ed il cinema mondiale, sbigottito. Il paziente inglese è stato osannato dalla critica e bistrattato dal pubblico. Ritenuto eccessivamente lungo, smodatamente lento, terribilmente romantico.
Un film spettacolare in ogni suo aspetto: indimenticabile la colonna sonora, mirabili alcune scene, ormai personale bagaglio mnestico, vividamente ed accuratamente conservato. La sceneggiatura, ad opera dello stesso Minghella, si presenta frammentaria, priva di nessi logici il più delle volte, confonde e spiazza anche l’osservatore più accorto. Il plot del film procede infatti, in maniera disorganica, utilizzando flashback e rimandi al passato, senza una logica temporale, ma semplicemente emotiva. I ricordi del conte Laszlo de Almasy (Ralph Fiennes) si dipanano lenti e sfumati tra le pagine di un antico volume di “Le storie” di Erodoto. Al cui interno sono raccolti pensieri, emozioni, legati ad una fantomatica K., iniziale di un nome femminile onnipresente nel libro. K. è Katharine Clifton (Kristin Scott Thomas), donna molto colta e sposata, che il conte incontra nel deserto del Nord Africa, durante la seconda guerra mondiale. L’attrazione tra i due esploderà in tutto il suo ardore, disarmante e potente, innalzandoli al cielo e precipitandoli in terra con la stessa facilità. La consapevolezza di avere vissuto intensamente quell’amore, seppur a metà, è preferibile al rimpianto di non averne mai contemplato l’essenza. Candaule ha avuto il suo uomo. Gige la sua donna. Entrambi, a differenza del mito, pagheranno con la vita per il loro peccato. Un gravissimo incidente aereo, ridurrà il conte de Almasy ad un ammasso di carne bruciata, dal volto completamente sfigurato, accanto a lui, fino alla fine, ci sarà Hana (Juliette Binoche) infermiera californiana, che cercherà in ogni modo di tenere in vita il più a lungo possibile, quell’uomo misterioso e senza passato. Altri personaggi sfileranno, per infittire una trama di per sé già aggrovigliata, accentuando ulteriormente i toni drammatici della vicenda.
Un film ammaliante, dallo straordinario potere evocativo, in cui sovrana regna la fotografia, inquadrature ad ampio raggio, hanno la loro soluzione artistica in piani sequenza dall’effetto sfumato, in cui con abilità tecnica non indifferente, le onde di sabbia del deserto si tramutano in pieghe di lenzuola, senza alcun trauma visivo, nel passaggio da un ambiente esterno ad uno interno. Nota di merito al montaggio eseguito da Walter Murch. Un film in cui più vite si intrecciano l’una all’altra, nel tentativo di perpetrare un’illusione d’amore in un contesto di guerra e morte, desolazione e abbandono. Il paziente inglese è uno di quei film, la cui eco si tramanda e rimane immutabile nel corso del tempo, il cui pathos si riverbera e si alimenta in un continuo climax ascendente, fino alla meravigliosa scena finale, semplicemente struggente.