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The Great Debaters - Il potere della parola

07/01/2012 12:00

Antonella Sugameli

Recensione Film,

The Great Debaters - Il potere della parola

Torna Denzel Washington in cabina di regia dopo l'esordio nel 2002 con Antwon Fisher: pellicola biografica che lanciò l’attore emergente Derek Luke ma che non r

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Torna Denzel Washington in cabina di regia dopo l'esordio nel 2002 con Antwon Fisher: pellicola biografica che lanciò l’attore emergente Derek Luke ma che non raccolse consensi al botteghino. Attore poliedrico e talentuoso (Oscar nel 2002 in Training day di Antoine Fuqua), come regista la strada alla consacrazione del successo è decisamente più tortuosa: le tematiche scelte e il target a cui sono rivolti i suoi film - profondi, di grande levatura intellettuale - li rende capaci di una determinante attrattiva culturale. La sua seconda opera è tratta da una storia vera: Melvin B. Tolson, docente al Wiley College utilizza l’arma bianca della non violenza per antonomasia - la parola - per promuovere la parità razziale tra bianchi e neri. Istituisce così un gruppo di dibattito. Entrare a farne parte è un’impresa ardua: 360 studenti si contendono il titolo di debater, solo 45 arriveranno alla fine e 4 al termine della contesa, comporranno il team più famoso della storia afroamericana.


Anni Trenta. Anni difficili quelli che precedono la prima guerra di secessione americana; i neri del Sud pagano a caro prezzo lo scotto dell’essere "niger" (sporchi, letteralmente). A causa del colore della pelle vengono linciati, vessati, ingiustamente pestati o peggio uccisi fisicamente o moralmente con l’estromissione forzata dalla vita politica economica e sociale del paese, pur essendo parte integrante e fondamentale di quello stesso tessuto socio-economico. Sono gli anni in cui vigono le leggi di segregazione razziale emanate da Jim Crow, ma sono altresì gli anni in cui iniziano a germogliare e a circolare le prime voci di una cultura afroamericana fino ad allora costretta sotto vuoto. Il gruppo eterogeneo per genere e cultura è composto da James Farmer Jr. (Denzel Whitaker), figlio del pastore della comunità; Samantha Booke (Jurnee Smollet), prima donna a far parte del gruppo di dibattito; Henry Lowe (Nate Parker) disadattato, tanto ribelle quanto intraprendente e volitivo; Hamilton Burgess (Jermaine Williams), ragazzo dalla parlantina facile. Ma le parole sono proiettili da maneggiare con cautela: il senso alcune volte si ritorce contro chi non ha saputo farne buon uso. I ragazzi, stimolati ed incentivati dai primi successi, diventano abili oratori e impeccabili ricercatori, sono pronti così per la sfida decisiva: dibattere con i bianchi di Harvard.


The Great Debaters prende le mosse da un articolo apparso nella primavera del 1997 sulla nota rivista American Legacy, mentre cinematograficamente strizza l'occhio a L'attimo fuggente e Il colore viola. Tra resoconto storico e sguardo romanzato, Denzel Washington - calandosi in prima persona nel ruolo del protagonista - ritrae con eccezionali virtuosismi linguistici l’America di chi l’ha subita, di chi ne è rimasto sedotto, di chi è riuscito a cavarsela nonostante tutto. Agevolato dall'accurata ed emozionale sceneggiatura di Robert Eisele, la seduzione della parola inchioda lo spettatore allo schermo, come un bimbo ad un acquario: Eisele ha pescato per il suo pubblico le parole migliori e ne ha fatto un’arma, ben consapevole di come la conoscenza sia sinonimo di potere, ieri come oggi. Contemporaneo di Tolson, Martin Luther King scriveva in quegli anni: "Ho un sogno, che un giorno questa nazione si sollevi e viva pienamente il vero significato del suo credo. Riteniamo queste verità di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali". Anche la consapevolezza è potere. L'evidente retorica in superficie non sottrae valore all'opera: prolissa per esigenza, comunque dinamica nello sviluppo e magistralmente interpretata dagli attori. The Great Debaters è una lezione di jazz, blues, violenza, speranza, tolleranza; commovente ed esigente, impone ai suoi fruitori onestà intellettuale, perché qui, come in pochi altri lungometraggi, la parola assume un'importanza prioritaria.


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