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Gigolò per caso

15/04/2014 11:00

Davide Stanzione

Recensione Film,

Gigolò per caso

Fioravante e Murray sono due vecchi amici che non versano in condizioni economiche particolarmente felici...

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Fioravante e Murray sono due vecchi amici che non versano in condizioni economiche particolarmente felici. Il primo ha un negozietto di fiori che si avvia alla chiusura e anche il secondo non se la passa benissimo con la sua libreria. Decidono così di mettersi in proprio col mestiere più antico del mondo: Fioravante (John Turturro) farà il gigolò, mentre Murray (Woody Allen) gli farà da manager. I due si scelgono allora degli improbabili nomi d’arte (rispettivamente Virgil e Dan Bongo) e si lanciano alla conquista di un folto mercato di signore annoiate, che farebbero di tutto pur di mettere le mani su un uomo forse non bellissimo ma di sicuro affascinante come Fioravante alias Virgil. Ovviamente però le disavventure non tarderanno ad arrivare, tra crisi sentimentali pronte a far crollare tutto, gelosie e un poliziotto ebreo chassidico che contribuirà non poco a mettere i bastoni tra le ruote alla coppia male in arnese e alla loro sotterranea attività.


John Turturro torna alla regia con Gigolò per caso dopo l’ultimo Passione e lo fa con immutato brio e con altrettanto coinvolgimento personale. Nel film infatti si respira moltissimo di lui, dal forte legame con le sue origini mediterranee al suo mondo espressivo ben delineato, tanto nell’umore quanto nei colori. C’è tanto anche del suo fascino elegante e goffo da antidivo, del suo carisma di interprete capace di ritagliarsi una porzione di spazio non indifferente nell’immaginario del cinema americano che conta degli ultimi decenni, grazie a un volto singolare e a una presenza scenica mai inflazionata. Il Turturro dietro la macchina da presa è invece un regista eclettico e speziato, ricco di sfumature e sapori (l’aveva già dimostrato con Romance & Cigarettes), magari un po’ telefonato e grossier nel suo sentimentalismo ma non per questo meno aggraziato e (a suo modo) raffinato di quanto non voglia sembrare. In questo caso non manca di ribadire anche una buona abilità nella direzione degli attori e una sicurezza sufficiente nel dare corpo e senso all’ambiente nel quale li inserisce, in questo caso il quartiere newyorkese di Williamsburg, a Brooklyn. Zona suggestiva e ultra-hipster nel tessuto urbano della Grande Mela, che in mano a Turturro sembra una roccaforte tiepida di anime delicate e svagate, ancora disposte a coltivare l’utopia di un amore che continua ad essere cortese e gentiluomo anche laddove subentra la dimensione merceologica del sesso a pagamento. A Turturro piace il mix linguistico italo-ispanico, la lingua come strumento di seduzione al pari del corpo. La sua prospettiva è etnica e frizzante, con una visione d’insieme che pare mutuata proprio dal co-protagonista Woody Allen e dai suoi vezzi registici. Si pensi al modo di inquadrare le strade, gli ingressi delle villette, le architetture cittadine, al sapiente amalgama della colonna sonora (che non a caso s’inoltra anche nel territorio del jazz), alla satira sui tic dell’ebraismo a tratti davvero irresistibile. Quella con Woody è una vera e propria osmosi, da cui Turturro sembra trarre una dose consistente di consapevolezza sullo stile che ha scelto di adottare.


Il suo film potrà risultare un po’ fuori dal mondo guardandolo sotto una lente più cinica, ma al di là della saudade e dell’esotismo è apprezzabile l’interesse di Turturro per la cultura come sincretismo e fusione, nonché il suo sguardo affettuoso e non banale sulla femminilità. Significativo a tal proposito è il personaggio della Paradis: Avigal, ebrea chassidica vessata da un’istituzione religiosa che relega le donne a una subalternità scandalosa e impensabile per i giorni nostri, è colei che nel film occupa forse più spazio dopo il protagonista, una figura ben approfondita fin dalla sceneggiatura. Gigolò per caso non nasce dunque dall’esclusivo sfizio di mettere Sharon Stone e Sofia Vergara nello stesso letto, come si poteva sospettare. È una commedia dei sentimenti e degli affetti secondo tracciati più dolci e meno ruspanti di quanto fosse lecito aspettarsi, più malinconici che eroticamente sfrontati. Nel finale, Turturro arriva addirittura ad accostare in sequenza tre primi piani di fila per rendere al meglio la progressione emotiva della storia attraverso la presa diretta dei volti dei suoi personaggi: una scelta sorprendente, non troppo prevedibile e un po’ spiazzante, come d’altronde lo è il tono complessivo del film stesso, molteplice e non univoco. Un’opera qua e là esile ma gradevole, che smitizza con sapido gusto e sana autoironia il fallocentrismo del maschio dominante e si arrende deliziosamente alla fragilità del femmineo.


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