L'espressività di Spike Jonze, regista dall'indole spigliata e innovativa – Essere John Malkovich e Il ladro di orchidee hanno evidenziato un alto tasso di sperimentalismo personale (nella cui riuscita c'entra indubbiamente l'amico Charlie Kaufman) – ha lasciato il segno, nonostante lo scarso numero dei progetti da lui diretti. Il terzo lungometraggio, Nella terra delle creature selvagge, per fortuna, non è da meno. Dopo aver attraversato qualcosa come dodici montaggi diversi prima della versione finale – a causa delle differenti vedute tra la Warner e Jonze – il film ha preso una piega piuttosto insolita: è un racconto estemporaneo, figlio del fantasy anni '80, con riprese dal vivo di enormi pupazzoni animatronix, resi realistici da innesti espressivi di computer grafica raffinita, quasi invisibile. È questa l'immaginazione, pura, che Jonze voleva preservare e che, a fatica, è riuscito a mantenere intatta. Max è un bambino che attraversa una fase particolare della sua vita: combatte la solitudine grazie alla fantasia, creando nella sua stanza mostri e paesaggi selvaggi, dove vi avanza a morsi, con la forza della paura. A casa la madre non lo ascolta, e a seguito di un litigio, le morde il braccio e scappa. Durante la fuga su una barchetta, prenderà contatto con un mondo mai visto prima, simile a quei sogni che aveva sempre immaginato e sperato di calpestare. Eppure, in un mondo governato dall'immaginazione, il rischio di travisare è molto alto. Max, difatti, lo capirà a sue spese... fortuna che la strada di casa non si dimentica. Tratto dal racconto illustrato di Maurice Sendake (autore di testi e disegni), Nella terra delle creature selvagge è un film crudele, che racchiude uno sguardo, quello dell'infanzia, nella sua più candida e commovente libertà . Giocare col sorriso stampato in volto, dormire accoccolati, gridare a squarciagola, rotolarsi sulla sabbia e sfamare sempre nuove storie sono le gioie dell'essere irresponsabile. Per mezzo di un lirismo onirico, limpido, depurato da smorfiosità e déjà vu tradizionali, il regista percorre letteralmente una visione fantastica nella quale analizza, con la forza comunicativa del silenzio, acuti sfoghi puerili. Come una calda coperta di lana stretta durante una bufera di neve, il film, con la stessa, lenta intensità , riscalda il cuore e suggerisce sottovoce diverse riflessioni: sulla vita, sulla famiglia, sull'esistenza. Passando oltre un ritmo effettivamente troppo cadenzato e un montaggio non sempre all'altezza, a bilanciare il quadro interviene la bravura del piccolo Max Records e la stupenda colonna sonora. Spike Jonze è abile nel conferire alla terra selvaggia un tono adulto, senza l'uso scontato di sangue, violenza o prevedibili toni dark; le emozioni seguono un percorso ben preciso, non facendosi carico di complicazioni linguistiche/scenografiche ma aggrappandosi alla veridicità dello sguardo infantile. Un approccio tanto semplice quanto ricco di rilevanti sfumature interpretative e metaforiche. Un viaggio particolare, forse non indimenticabile eppure capace di emozionare con la sola forza degli intenti. L'Into the wild dei piccoli.