È ancora aperto il dibattito antropologico sul tema dell’esistenza delle accabadore. Alcuni sostengono siano leggende, altri che siano realmente esistite. Le accabadore erano figure femminili che, secondo la tradizione sarda, davano la “buona morte” ai malati cronici che lo richiedevano, ponendo fine alle loro sofferenze con un cuscino o una mazza di legno. Nasce così, da un tema singolare e intrigante, l’ultimo film del cagliaritano Enrico Pau. Fin da ragazzina, ad Annetta è stato assegnato il ruolo di accabadora dalla comunità del paesino in cui vive. Pare che la morte la segua ovunque vada: giunge a Cagliari all’inizio degli anni ’40, quando la Guerra inizia a distruggere la città; sta cercando Tecla, sua nipote, e nel frattempo trova alloggio in una grande villa di una famiglia che lascia la città per sfuggire alle incursioni aeree alleate. I bombardamenti sulla città accompagnano la protagonista e gli altri personaggi che popolano la storia per tutta la narrazione. Non li vediamo mai in atto, ma sentiamo le bombe arrivare in tutta la loro violenza e vediamo, camminando per le strade insieme ad Annetta, il capoluogo sardo distrutto e decadente. Anche quando non ne vediamo gli effetti, i bombardamenti sono imminenti. L’atmosfera rarefatta e quasi mistica - in una città vuota, dai colori chiari, ma dai palazzi sporchi a causa della distruzione delle bombe - è il punto di forza di questo film, coproduzione italo-irlandese. Cagliari emerge come una città fantasma, affascinante ma anche portatrice di profondi lutti. Tutto questo focalizza l’attenzione sul tema principale del film, raccontato attraverso il peso della guerra e il peso della morte che l’accabadora è costretta a portare. I silenzi ripetuti hanno un ruolo importante nel film di Enrico Pau, ma rischiano spesso di risultare poco comunicativi all’interno di una narrazione già scarna. Donatella Finocchiaro interpreta un’Annetta su cui grava costantemente il peso del compito che deve svolgere: profondamente triste e dolente, appare talvolta spettrale proprio come la città in cui si muove. Sembra però mancare anche a lei la tridimensionalità di un personaggio che non è solo il ruolo che deve svolgere, ma anche un essere umano. Anche gli altri ruoli femminili sono poco convincenti, in un lavoro che forse si è concentrato più sul testo che sull’azione. Il rigoroso lavoro dedicato alla fotografia, alla scenografia, ai costumi poteva quindi raccontare di più. Emerge comunque efficacemente come il terzo film di Enrico Pau non abbia la pretesa di raccontare tanto dell’eutanasia praticata dall’accabadora, quanto il lutto, inteso come il vuoto che esso lascia.