Accolto come un piccolo capolavoro all'ultimo Festival di Cannes, 120 battiti al minuto può definirsi appassionato, tragico, acuto, incalzante, insolente, euforico. Il film di Robin Campillo racconta le gesta di Act Up, associazione nata per destare la comunità gay dal fatalismo e dal torpore, contro l’Aids e i pregiudizi. Mentre infatti la politica e l'industria farmaceutica sottovalutavano il problema, Act Up si è battuta per sensibilizzare la società e abbattere la falsa credenza che i gay, dediti “al piacere ed al divertimento”, contribuissero al diffondersi dell'epidemia. Il film traccia un avvincente arco narrativo sull’amore, la vita e l’amicizia. Le vicende ruotano principalmente attorno ai componenti maschili di Act Up: l’associazione ha elaborato un modus operandi quasi rituale, sia durante le riunioni, sia durante gli interventi pubblici.
La prima manifestazione della loro lotta, che ci viene mostrata a inizio film, ci proietta subito nel vivo dell'azione. Durante una conferenza sull'Aids dell'allora ministro francese alla sanità, gli attivisti di Act Up lanciano sangue finto sull'uomo e lo incatenano a un palo, passando per gruppo violento e indisciplinato. Ma Act Up crede in questi comportamenti borderline: lanciare palloncini di sangue finto, causare danni agli oggetti per generare stupore e rottura. Sono state proprio queste tattiche, del resto, a condurre le autorità a venire a patti con Act Up; così facendo l’associazione ha sollevato importanti questioni e accelerato la diffusione di informazione e ricerca. Da partecipante attivo del gruppo di allora, il regista scrive a quattro mani con un altro componente di Act Up, Philippe Mangeot, una sceneggiatura serrata, né veloce né troppo dilatata; capace di emozionare e far riflettere senza mai scadere in facili sentimentalismi. Racconta con estrema naturalezza una diversità, uno spaccato atipico ma bruciante e reale. Forti immagini evocative ma anche poetiche; contrasti tra scene di sesso (mai fuori luogo, tutt'altro) e oniriche visioni, come quella della Senna tinta di rosso sangue. Tra gli attivisti c'è Sean (Nahuel Pèrez Biscayart), un ragazzo impertinente e intelligente, che alle riunioni parla ad alta voce e sfida ciò che gli sembra sbagliato. Nathan (Arnaud Valois) è un tipo più calmo, che si è unito da poco alla causa, molto attratto da Sean. C'e poi Sophie (Adèle Haenel), instancabile organizzatrice, e Thibault (Antoine Reinartz), la cui leadership spesso crea tensioni all'interno del gruppo. Il film segue le loro vicende, la loro esistenza fatta di guerriglie e disordini. Robin Campillo non ci mostra mai il confronto con le forze dell'ordine o le ore d'attesa in cella: è più interessato alle vite private dei protagonisti, prima e dopo le azioni.
La loro esistenza è più che densa di eventi. La relazione tra Sean e Nathan è il filo conduttore del dramma, ciò che conferisce alla vicenda una direzione e definizione emotiva. Ed è proprio Sean, di ritorno con gli altri dopo una protesta di successo, che dichiara la chiave di lettura del film: l'impellenza della morte ha intensificato il suo apprezzamento per la vita. In quel momento, la città vista dal finestrino della metro sembra improvvisamente più bella e più colorata. Come una serata da sballo in discoteca, come fare l'amore con foga, come ballare una musica da 120 battiti al minuto. In parte lo straordinario successo delle campagne di Act Up proveniva proprio dalla questa capacità di apprezzare la vita, pur pensando costantemente alla morte. Per la generazione gay degli anni ‘80 e ‘90, per Act Up la mortalità, la malattia, il lutto erano qualcosa con cui confrontarsi, senza nessun aiuto esterno. Eppure i protagonisti, proprio come questo film possiede ciò che il titolo implica: un palpito.