Fiducia: come conquistarla? Gerald McMorrow ce l'ha fatta grazie al precedente Thespian X, corto sci-fi realizzato nel 2002 che ha raccolto consensi in molti festival importanti. Il punto di svolta si registra nel 2008 quando decide di trasformare un racconto breve in lungometraggio. La storia, scritta di getto, presentava una donna in procinto di togliersi la vita, mentre dall'appartamento di sopra qualcuno stava per uccidere una persona dall'altra parte della strada. In quell'istante Franklyn prende vita e assume significati cangianti. Progetto ambizioso, tra fumetto noir e thriller psicologico, il primo film da regista per McMorrow è un'attrazione che non vuole essere inquadrata in un genere specifico, né richiede dei modelli di paragone per essere compresa. E come tutti gli esperimenti che inseguono ossessivamente la singolarità, incappa in una “Vichyssoise Verbale che Vira Verso il Verboso” - detto alla maniera di V (per Vendetta). Ovvero, una sceneggiatura barocca e pomposa, impigliata in un soggetto che vorrebbe dire tanto ma non possiede la forza espressiva adeguata. Quattro persone svolgono vite indipendenti in un mondo parallelo dominato dal fervore della religione (il regista si è ispirato alla storia romana e fiorentina). Il Ministero, questo organo politico-religioso, governa la sua popolazione facendo credere loro qualsiasi cosa per depistarli dalla verità. Nella Città di Mezzo (nome non casuale), Jonathan Preest è un emarginato in fuga da una minaccia molto più grande di lui. Il suo immediato futuro come quella di altre tre persone cambierà nel momento in cui le loro vite collideranno: basterà un solo proiettile a determinare il loro destino. Due realtà complementari che non sembrano avere molti punti in comune: le dinamiche mondane in una Londra contemporanea si allineano a una metropoli dalle tinte fosche, ricordo assemblato tra la Dark City di Alex Proyas e la Los Angeles vista in Blade Runner. Le zone d'ombra della città riflettono la personalità di Preest. I tre personaggi sono legati da un vuoto interiore e tentano di colmarlo, eccetto Jonathan Preest, il quale vive in un posto interamente dominato dal dogma religioso. La sua è una figura contaminata dal nero dell'esistenza: in fuga perenne, dalle leggi, dal suo passato, dalla sua vera identità è alla ricerca di una luce che lo riporti alla vita. Impossibile descrivere Franklyn nella sua grandiosa evanescenza senza scavare in profondità e svelare la sorpresa finale. McMorrow, regista e sceneggiatore, non si esime dal trattare temi forti quali la schizofrenia, la follia e la depressione con un tocco personale, nonostante dimostri maggiore destrezza con la cinepresa. Se fosse stata una graphic novel - magari scritta da Alan Moore e illustrata da Dave McKean – sarebbe potuta diventare un classico della letteratura a fumetti. Franklyn è un film misterioso: come per Donnie Darko, la dissemina di indizi (o macguffin) concorrono a rappresentare una verità nella finzione cinematografica. Ma disposti sul tavolo mentale tutti i tasselli del puzzle, l'impressione è che ne manchino ancora molti. La spiegazione finale non risponde alla domanda “com'è possibile tutto questo?”, bensì “perché non può essere possibile?”. Qui è racchiuso il concetto di serendipità: trovare qualcosa non previsto che porti a nuove strade interpretative e quindi a nuovi input cerebrali. Chissà se Scorsese ne trasse spunto prima di girare Shutter Island; rimane il rammarico per il disequilibrio tra forma e contenuti: se in Matrix l'azione aveva una funzione terapeutica atta a spezzare gli innesti filosofici dei fratelli Wachowski, qui è la voce narrante del protagonista a scandire i momenti salienti per evitare cadute di sonno. Troppi periodi ipotetici per una pellicola complessa e dal potenziale distopico rimasto sotto coperta. È scattato lo stato di allerta. Fiducia: la stiamo perdendo.