The Bear, eccezionale e acclamatissima nuova serie tv su Disney+, è un capolavoro di umanità: ecco la recensione della stagione 1.
Il mondo di Disney+ diventa ogni giorno più grande e variegato, in continua crescita anche grazie all’emittente televisiva FX che vanta alcuni tra i titoli più interessanti della piattaforma. Ultima (ma non per importanza) è la nuova e dirompente The Bear.
Di che cosa parla The Bear
La serie tv è forse la meno comedy in grado di portare questo nome: Carmy (Jeremy White), un famoso giovane chef pluripremiato, torna nella sua città natale, Chicago, per prendere in gestione la tavola calda di famiglia dopo il suicidio del fratello alcolista, tra debiti da saldare e indifferenza dello sgangherato staff alle sue richieste di igiene e cucina.
Carmy cerca in ogni modo di tenere a galla il ristorante su cui proietta il difficile rapporto col fratello, lavorando contemporaneamente su se stesso e imparando a chiedere aiuto.

Più in profondità, vi è una potentissima sottotrama che dà forza e valore a questo delicato prodotto televisivo: si parla di umanità in tutte le sue spaccature e imperfezioni attraverso la lente d’ingrandimento della ristorazione, con le sue rigide regole, e del gigantesco orso bruno che ognuno di noi porta dentro e che ogni tanto, infuriato, riesce a scappare dalla sua gabbia.
Questa stessa bestia è la protagonista indiscussa, impersonata paradossalmente dallo smilzo Carmy, che porta allo scoperto i problemi di tutti i personaggi, ognuno con un distintivo grido di aiuto.



La tragedia umana di The Bear
Le sofferenze in prima fila sono la salute mentale, l’elaborazione del lutto e lo stress da lavoro, ma anche l’accettazione del fallimento, le dipendenze, i rapporti familiari e gli attacchi di panico.
Altro elemento di grande importanza è, naturalmente, il ristorante “The Original Beaf of Chicagoland”, centro di ogni crollo emotivo e di ogni successo, che appare come una sacra Mecca a ognuno dei bizzarri personaggi: dal pasticcere che dorme sul pavimento pur di riuscire a preparare la ciambella perfetta, alla sorella co-proprietaria che vorrebbe solamente vendere e lasciarsi alle spalle ogni problema.
The Original Beaf of Chicagoland diventa quindi un teatro, il luogo in cui viene messa in scena ogni tragedia umana e relazione interpersonale.

La normalità fa schifo
Una delle caratteristiche più affascinanti e sconcertanti della serie è l’aberrante normalità dei comportamenti sociali: si parla di covid, si spaccia droga, ci si infilza un coltello da cucina nel gluteo, si litiga, si spara in aria, il tutto urlato e impreziosito da insulti e volgarità.
Quasi perfetta è anche la descrizione del mondo culinario, grande metafora delle sfide della vita e di come fronteggiarle, cucine come vere caserme che possono diventare luoghi di lavoro spietati e psicologicamente devastanti.

L’ambizione è la chiave del mestiere: un’arma a doppio taglio che, se usata con consapevolezza, può creare meraviglie, ma anche avvelenare l’anima.
In un delicatissimo equilibrio, infatti, Carmy cerca di guidare il suo staff di borderline verso il cibo “fatta bene”. Inoltre, i piatti sono preparati con grande maestria e ripresi con dettagliati movimenti di camera che vengono accentuati dalla forte saturazione cromatica tipica di tutta la serie.

The Bear, un capolavoro di ritmo
Il ritmo, impetuoso e calzante proprio come quello di una vera cucina di ristorante, fa entrare lo spettatore a pieno nella vicenda e nelle delicate dinamiche che la regolano. Nonostante i tragici retroscena, i personaggi risultano simpatici e in ogni episodio vi sono vicende divertenti, fino a diventare paradossali, che permettono di mantenere la targa commedy sulla porta di casa.
Da evidenziare è la potente performance di Ebon Moss-Bachrach, il cugino Richie, che nonostante i suoi toni grezzi e spinosi riesce a catalizzare su di sé ogni pietà.

Il giovane regista Christopher Storer, ideatore dello show con l’aiuto della produttrice Joanna Calo (BoJack Horseman), sembra aver realizzato proprio un piccolo capolavoro di umanità.
Sdogananando tutti i luoghi comuni dei programmi culinari più in voga del momento, spara dritto nella pancia dello spettatore un proiettile fatto della dura realtà del quotidiano della ristorazione, dove tra drammi e fallimenti c’è sempre posto per un po’ di poesia. Proprio come per un piatto preparato bene.
