Moby Dick o La balena di Herman Melville - libro sviscerato, interpretato e rinato nel dramma teatrale di Samuel D. Hunter - è stato portato sul grande schermo da Darren Aronofsky in una nuova trasposizione cinematografica con The Whale. Aronofsky si ispira (sulla scia stilistica di Madre!) a La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock, a Dogville di Lars Von Trier e a Carnage di Roman Polanski, per realizzare un film in cui una sola location diventa uno spazio dilatato dove l’azione è emozione.
Il tema dell’ossessione umana e delle inclinazioni prometeiche che ne governano i fili sono i topos dell’ontologia di Aronofsky.
La loro elaborazione e messa in scena rappresentano il raggiungimento della catarsi attraverso l’espiazione dell’Io dei personaggi. Sembra essere un punto fermo il viaggio intrapreso da Aronofsky nelle sue pellicole: a partire da Pi greco da cui è partita l’indagine per smascherare le paure attraverso il viaggio nella selva oscura delle nostre ossessioni, ma anche il costo che la nostra esistenza è costretta a pagare per le loro spine.
Le ossessioni di Aronofsky
Ogni passo del regista affonda sempre più nel vuoto delle promesse, delle speranze mortali e dell’abuso come cura dei sogni infranti, come in Requiem for a Dream (2000) dove i protagonisti (Jared Leto e Jennifer Connelly) vengono inghiottiti dalla spirale delle droghe mentre la corrente, in basso, spinge verso un’incessante ammonizione del pensiero nichilista, stessa forza motrice che muove la trama di The Whale. E mentre l’ossessione fa breccia nello schermo, l’essere umano prende forma nella sua esaltazione della perfezione (Cigno Nero) e dell’ideale (The Wrestler), diventando esso stesso ossessione: Natalie Portman e Mickey Rourke nelle vesti di protagonisti plasmati dall’ideologia del successo, scelgono l’agonia fisica per elevare il proprio io, stravolto e travolto dai conflitti e dai dolori emotivi della loro vita.
Con Noah (2014) e la sua arca approda a Madre! (2017) e le sue allegorie bibliche, dove un dio distrugge tutto ciò che la donna creatrice dona. Dopo la presa di potere del degrado narcisistico (il divino), la speranza (il neonato) - che nella scena finale incombe su un gregge di uomini religiosamente bramante - è divorata dal “poeta” (Javier Bardem) nella medesima estasi con cui l’assassino Jean Baptiste Granouille in Profumo, Storia di un assassino di Tom Tykwer, viene assaporato dalla folla.
The Whale e Moby Dick: naufragare nella sofferenza
Morta la speranza, Aronofsky si ritrova tra le onde dell’Oceano Pacifico, sulla nave capitanata dal famigerato Achab che, come il suo nuovo protagonista Charlie (interpretato magistralmente da Brendan Fraser), è alla disperata ricerca della giustizia “divina”; intesa come libertà e come limite che l’uomo, alla stregua di un dio, traccia indelebilmente sulla vita. Charlie è il capitano di un viaggio odissiaco nei meandri della sofferenza e della perdita, dove la consapevolezza di un’imbarcazione (ormai) insufficientemente resistente al costante pericolo delle tempeste di dolore, lo fa naufragare e sprofondare in un suicidio lento e straziante.
In Charlie dilaga un vuoto interiore che, come un’ancora, trascina giù nell’abisso anche quello esteriore; dove l’abuso del negato desiderio è avvertito così intensamente da contagiare ogni ambito della sua vita.
Il cibo è cemento colato sulla voragine della perdita del suo grande amore, che per tutta la pellicola è un volto sbiadito dalle lacrime, una fotografia fuori fuoco, non essenziale allo scorrimento della trama e al processo emotivo di abbandono di Charlie. All’aumento di peso corrisponde l’aumento di fatica quotidiana per sopravvivere. Le capacità funzionali si tramutano in una corrente che lo fa arenare. L’immobilità diventa (per mano del compositore Rob Simonsen) un susseguirsi di suoni dissonanti sospesi e distesi che emergono e scompaiono nella narrazione, non invadono lo spazio scenico ma ne aumentano il pathos.
Il regista è spettatore di questa scesa all’inferno, proprio come noi; subisce le difficoltà motorie di Charlie e ne spia gli spostamenti come un’onda che avanza e si ritrae. La macchina da presa con il tracking-shot, segue da destra a sinistra e poi, da sinistra a destra il movimento della testa di Charlie, unica parte del corpo ancora agile che gli permette l’interazione sociale con la sua amica Liz (interpretata da Hong Chau), mentre il corpo rimane aggrappato al divano.
Charlie si nasconde come Moby Dick negli abissi, non emerge mai in superficie e non affronta la realtà della sua “nuova” forma, tiene lezioni di inglese con la webcam spenta e interagisce con gli studenti solo con la voce. Permette solo all’amica Liz di essere visto perché entrambi attanagliati dalla stessa perdita.
Achab e Charlie, i protagonisti di un viaggio nell'ossessione
L’accettazione della sua condizione prende forma solo con la ricostruzione del rapporto padre-figlia, un altro topos aronofskiano. Ellie (Sadie Sink) è un’adolescente acuta e ribelle che si divincola, come una bandiera contro il vento, per essere vista da Charlie, il padre che travolto dall’amore per un suo studente l’ha abbandonata alla tenera età di otto anni. All’antitesi del padre, Ellie usa la verità e la rabbia come veicolo per superare la perdita e mostra un nuovo mondo dove il vero è la massima espressione della bellezza e la cura al decadentismo.
Charlie sale in superficie, esige la sincerità da tutti, con tutte le forze, ne è affamato e spinge i suoi allievi a scrivere della verità, ad essere verità. Accende la webcam, allunga le braccia e allontana il pc e, con un wideshot, si mostra in tutta la sua grandezza: gli studenti sono attoniti come davanti a una caricatura di Botero. Cala il silenzio e la sabbia della clessidra continua a scendere, Charlie lancia il computer e interrompe la lezione dimostrando agli studenti che essere veri e sinceri è una liberazione. La libertà è accettare la propria ossessione e inseguirla, proprio come fa Achab.
Le analogie tra il capitano della Pequod e Charlie sono facilmente riscontrabili nel film, entrambi vincolati dall’ossessione per la libertà e dall’autodistruzione come reazione a un trauma.
Due figure che, sopraffatte dallo stress cronico e private delle capacità di regolazione dell’organismo, sfociano nell’egoismo, chiave di lettura con cui leggere l’ossessione per la libertà di queste due storie speculari. La libertà viene inseguita con così tanto ardore da diventare una condanna che condiziona anche l’esistenza dei personaggi legati ai protagonisti. Ellie ne è il lampante esempio, la conquista dell’amore a discapito della propria figlia, rende Charlie un anti-padre e Ellie una vittima. L’egoismo di Charlie raggiunge la sua apoteosi dopo la perdita del compagno, dove il rischio fisiologico cumulativo associato all’esposizione allo stress lo ha condotto all’obesità.
Charlie si scaglia vorace sul cibo come un rapace, lo stress cresce ed inficia sullo stato energetico cerebrale e, come Achab che conduce la propria nave alla distruzione e il suo equipaggio alla morte nell’inseguimento della balena bianca, Charlie trascina nel suo suicidio Liz, Ellie e l’ex moglie che diventano testimoni inermi.
L'Aronofsky spirituale: l'interpretazione religiosa di The Whale
Manca ancora uno dei tasselli fondamentali della poetica di Aronofsky: la religione, rappresentata da Thomas (Ty Simpkins) un missionario della setta religiosa New Life Church. Thomas vorrebbe vestire gli abiti di un angelo redentore ma è, invece, un ragazzo che propina l’indottrinamento religioso come nascondiglio per fuggire dal vero e dalla paura. È un piccolo personaggio che trova rilievo narrativo dopo un episodio drammatico, come il mozzo Pip (sempre nel romanzo di Melville), che cade in mare e ci resta per ore prima di essere ripescato; l’episodio lo fa impazzire trasformandolo in un grottesco profeta che elargisce convinzioni inquietanti. Il conforto del missionario mostra l’aiuto bugiardo che nasconde l’elevazione dell’Io a svantaggio dell’ascolto scomodo. L’aggregazione e il pensiero unitario causa dell’annientamento del libero arbitrio, vengono vinti dall’irruente entrata in scena della verità.
Ellie come Ishmael (narratore e unico sopravvissuto alla tragica fine della Pequod e del suo equipaggio) si accorge che Achab è un misero uomo, che ha sempre lottato per la conquista della libertà e Moby Dick la libertà a cui tutti gli uomini ambiscono per sciogliere le catene dei propri limiti, della propria nave. Comprende che la balena è la libertà che va distrutta perché non la si possiede, comprende il padre.
Charlie finalmente si alza e cammina verso Ellie, a ogni passo si spoglia dei dogmi del matrimonio, della responsabilità genitoriale, della sofferenza subita e auto inflitta. I violini sostengono la tensione della fatica e gli ottoni ne trascinano il trionfo, le note si insinuano come una dolce brezza marina tra le onde frastagliate dell’ io di Charlie e ne accompagnano la catarsi. Per contrappasso, se in vita ha rifiutato la sua condizione umana e i suoi limiti, ora nulla più di pesante lo trattiene alla terra. Charlie, raggiunto il mare, diventa la balena e conquista la libertà.
Il finale tragico e disilluso è coerente con la drammaticità aronofskiana, ma la riconciliazione con la figlia e la luce del trapasso emanata da Charlie è la quiete dopo la tempesta, un insolito raggio di speranza in una filmografia che non concede il lieto fine. Si conclude, forse, il cerchio della ricerca sviscerante dell’ossessione umana di Aronofsky che, con spiccato minimalismo, ci ha portato con sé nel viaggio verso il mare.