Candidato come Miglior Film Internazionale agli Oscar 2024, Io capitano è un grido di liberazione profondamente rivoluzionario.
In una storica intervista contenuta nel volume Feast of fear (1989) Stephen King si soffermava sul suo peculiare modo di intendere la scrittura cercando di mirare al cuore della propria poetica: «Il centro delle mie preoccupazioni è sempre stato costante e probabilmente non cambierà neanche in futuro: ed è esattamente l'opposto rispetto a quello di coloro che definiamo “autori letterari”: scrivono libri su persone straordinarie in situazioni ordinarie, mentre per me è sempre stato il contrario».
Guardando all'odissea narrata da Matteo Garrone in Io capitano - storia di due giovani senegalesi in fuga dal loro Paese con in testa il desiderio di raggiungere l'Europa attraverso la devastante rotta dei migranti- la questione sollevata dal Maestro del Terrore appare particolarmente calzante: Seydou e Moussa cosa incarnano precisamente? L'ordinario che affronta un viaggio ai limiti del credibile (e dunque straordinario) o il cammino dei due predestinati capaci di superare l'orribile empasse del mondo fino alla terra promessa?
Ci voleva probabilmente un autore come Garrone per prendere una materia così incandescente e filtrarla attraverso un prisma, in grado di mescolare i due possibili punti di partenza.
Un regista, insomma, che avesse una consolidata dimestichezza con i laschi punti di raccordo tra reale e immaginifico, che sapesse, in poche parole, tramutare il realismo in esperienza fiabesca, fino a mostrare (per rifarsi alla vera sequenza chiarificatrice del film) la morte del corpo nel mezzo del deserto e la liberazione dell'anima pochi metri sopra il livello della sabbia.
Una scelta poetica forte che probabilmente cede qualcosa sul piano della programmaticità – il viaggio dell'eroe è un compendio più che prevedibile di orrori, con le stazioni della passione perfettamente scandite - ma totalmente consapevole di quanto un “racconto mainstream” fosse funzionale alla causa.
In fondo Io capitano non fa che metterci di fronte a quel che conosciamo, ma che per orrore o dolore confiniamo nell'indistinto del quotidiano.
Il mondo che viviamo non ha saputo evolversi: ci troviamo ancora nel mezzo de Il cammino della speranza, per dirla con Pietro Germi, solo che adesso non siamo più nel 1950 e non siamo noi a compiere il viaggio.
Eppure lo spettatore nostrano che si trovi a incrociare lo sguardo acceso e disperato di Seydou, il suo coraggio di non arretrare, il suo desiderio di giungere in fondo, non può non riconoscere lo specchio di un Paese che ha vissuto di emigrazione, che ha cercato oceani di latte in America (Nuovomondo di Crialese), che è stato popolo emigrante pure entro i propri confini (valga per tutti la viscontiana epopea di Rocco e dei suoi fratelli).
Io capitano è un grido di liberazione profondamente rivoluzionario e come tale va ascoltato, prima ancora che analizzato. Un grido così forte da trapassare le eliche rotanti di un elicottero, entrare nella nostra testa e non smettere di risuonare.