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Kingsman: Secret Service

23/02/2015 12:00

Francesco Restuccia

Recensione Film, CineComics, Marvel Comics, DC Comics, Kingsman,

Kingsman: Secret Service

Una spy story adrenalinica che si prende poco sul serio

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«Le piacciono i film di spionaggio, Mr Deville?», «Oggigiorno sono tutti un po’ troppo seri per i miei gusti». E allora ci pensa Matthew Vaughn (regista di X-Men - L'inizio) a riportare un po’ di leggerezza al genere. Molta leggerezza. Quella che serve a vedere con il sorriso centinaia di teste che esplodono in coloratissime scintille. Basta sedersi comodi e divertirsi a riconoscere la sfilza di citazioni dei classici del genere, senza prendere il film troppo sul serio e senza sperare di andare oltre l’accenno di un sorriso.


Mettete insieme il James Bond dell’ultimo Sean Connery o di Roger Moore, quello un po’ più ironico e inverosimile, una trama alla Men In Black e una manciata di pestaggi e stragi in stile Tarantino-Rodriguez. L’elegante Colin Firth è uno dei super-agenti della Kingsman, agenzia di Servizi Segreti indipendente e internazionale, fondata da un gruppo di ricconi che non si fidano delle amministrazioni pubbliche, le quali finirebbero sempre per essere corrotte: nascosti nelle segrete di un sarto londinese, i Kingsman usano come nomi in codice quelli dei cavalieri della tavola rotonda. Alla morte di Lancillotto, Galahad (Colin Firth) è incaricato da Artù (Michael Caine) di reclutare un sostituto e si rivolge al figlio di un ex-candidato Kingsman morto per un suo errore. Il giovane Eggsy (che ricorda per certi versi il Will Smith di Men In Black, ma è senza dubbio meno simpatico) è molto promettente ma anche grezzo, indisciplinato e senza educazione, se non quella della strada. Superate le varie prove del reclutamento contro gli arroganti sfidanti figli di papà, Eggsy dovrà affrontare il miliardario Valentine (Samuel L. Jackson) e il suo piano segretissimo che riguarda apocalittici problemi climatici, dispositivi internet che alterano i livelli d’aggressività e un nascondiglio per gli uomini più ricchi e potenti del pianeta.


In una pellicola in cui tutto è volutamente prevedibile, gli unici shock sono gli slittamenti da un registro a un altro: dalla parodia di una scena da film di spionaggio anni ’60 sul valore di un whisky all’improvviso intervento del personaggio mancante di Kill Bill, una ragazza con due lame come protesi al posto delle gambe. E così quando si pensa di sapere come andrà a finire ci si sente rispondere da uno dei personaggi «Questo non è quel tipo di film». I continui salti da un genere all’altro fanno sì che la trama non coinvolga lo spettatore mai fino in fondo, che le battute non facciano davvero ridere e che i personaggi abbiano la profondità dei pannelli in cartongesso di un set cinematografico. Non si segue il film per sapere cosa faranno i personaggi ma per vedere come si giocherà con i cliché, di volta in volta seguendoli, mettendoli in ridicolo o disattendendoli. Matthew Vaughn si sente libero così di affiancare a una trama da bambini scelte politicamente scorrettissime (già si è aperto il dibattito sullo scoppiettante finale con la principessa di Svezia) che, se non aiutano a immedesimarsi nei personaggi, permettono però di imparare a prendere meno sul serio il cinema di spionaggio, il cinema in generale e anche il senso di quelle due ore che passiamo in sala.


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