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Io sono Mateusz

13/03/2015 12:00

Francesco Restuccia

Recensione Film,

Io sono Mateusz

Un film su una disabilità tende sempre a essere uno sguardo pietistico su una grande sofferenza...

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Un film su una disabilità tende sempre a essere uno sguardo pietistico su una grande sofferenza. Il regista polacco Maciej Pieprzyca nel pluripremiato Io sono Mateusz cerca di invertire il punto di vista. Non è il ritratto della difficile vita di un ragazzo con un pesantissimo handicap, ma lo sguardo di Mateusz, oltre la finestra, sul mondo. Solo così il film riesce a permettersi una leggerezza impensabile per un tema simile: per il protagonista la propria condizione è in qualche modo normale e il sorriso della vicina può dargli una gioia piena.


Il vero grande dramma di questa storia, ispirata alla vita del ventiseienne polacco Przemek, non è la malattia di Mateusz ma la sua impossibilità di comunicare. Il ragazzo non controlla i propri movimenti, non può camminare, non può parlare e nemmeno fare gesti o articolare in qualche modo le proprie espressioni facciali. Solo una maschera di spasmi. Un muro tra la sua interiorità e il mondo. Tanto da porre un interrogativo filosofico oltre che medico: ha senso parlare di un’interiorità, di pensieri, di sentimenti, se questi non possono essere in alcun modo espressi? La risposta dei medici polacchi del tardo regime di fine anni ’80, riconfermata però fino a oggi, è no. Gli viene diagnosticata una paralisi cerebrale: Mateusz non capisce, non sente, non pensa niente; i suoi riflessi sono quelli automatici e meccanici di una pianta fisiologicamente molto complessa. Ma la madre, il padre e alcune altre poche sensibili persone non hanno dubbi: il ragazzo sente, capisce, reagisce. L'unico grande interrogativo su cui si basa il film intero - e che potrebbe tenere la tensione fino alla fine, per farci sperare (o dubitare) che ci sia dell’umano in lui - è sciolto dalla prima scena. Non c’è alcuna tensione, alcuna suspance: Mateusz non è un vegetale. Lo sappiamo perché la voce narrante che ci accompagna dall’inizio alla fine è proprio quella del protagonista, che spiega passo passo quello che prova e che sente: lo spettatore si trova dentro la sua testa. Il che, se da un lato permette al film - cosa rarissima per il tema - di non essere pesante, ma persino tenero e in alcuni punti addirittura spiritoso (il cinema polacco, nonostante quanto si possa pensare, ha la sua forza proprio nell’ironia), dall’altra ne rende la struttura drammaturgicamente noiosa. Sappiamo dall’inizio che Mateusz capisce, ciò che pensa e cosa gli altri non comprendono di lui. Sappiamo (già dal trailer) che a un certo punto riuscirà a comunicare e siamo costretti ad aspettare due ore per sentirlo dire “Io non vegetale”. È una scena intensa, senza dubbio. Difficile che non scappi una lacrima.


A rendere più apprezzabile (o sopportabile) l’attesa di questo finale è la qualità tecnica del film, molto ben girato, con un’ottima fotografia e soprattutto attori eccelsi. Le scene col padre (Arkadiusz Jakubik) sono forse le migliori, proprio per la capacità dell'interprete di esprimere con naturalezza un affetto paterno tanto grande da non avere bisogno di essere ricambiato. Infine, l’unica cosa che davvero ci si chiede fino alla fine del film, restando sulle spine: gli attori che interpretano Mateusz (Kamil Tkacz, da bambino, Dawid Ogrdnik, da ragazzo) sono disabili? Come può un attore imitare certi spasmi involontari senza apparire ridicolo o persino offensivo? Per di più lasciandoci capire dal solo sguardo il mondo che si nasconde dietro i suoi occhi? Può, se è un attore davvero bravo.


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