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PPZ - Pride and Prejudice and Zombies

03/02/2016 12:00

Federica Cremonini

Recensione Film,

PPZ - Pride and Prejudice and Zombies

Nell'Inghilterra del XIX secolo una strana epidemia di zombie si abbatte sulle città e spazza via - quasi del tutto - il villaggio di Meryton, dove Elisabeth Be

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Nell'Inghilterra del XIX secolo una strana epidemia di zombie si abbatte sulle città e spazza via - quasi del tutto - il villaggio di Meryton, dove Elisabeth Bennet (Lily James) e le sue sorelle sono impegnate nella lotta contro il terribile flagello. Le circostanze costringeranno Elisabeth ad allearsi con lo scontroso e misterioso Mr. Darcy (Sam Riley) per sconfiggere la minaccia.


Tratto dal quasi-omonimo romanzo scritto nel 2009 da Seth Grahame Smith, che a sua volta si ispira alla più famosa opera di Jane Austen (ovviamente Orgoglio e Pregiudizio, risalente a quasi duecento anni prima), al suo quarto lungometraggio Burr Steers non abbandona il filo della commedia fantastica e, anzi, lo rafforza stavolta con un riadattamento in costume di quella che è già, di per sé, parodia di una delle più celebri storie di tutti i tempi. Per questo motivo il giovane regista, qui anche sceneggiatore, segue con linearità e sorprendente fedeltà le basi in cui l’intero progetto affonda le radici: Elisabeth Bennet e le sue sorelle sono sempre figlie di una madre alla ricerca di un marito che possa sistemare le vite di ognuna di loro, con la differenza che alla loro raffinatezza e cultura, al pari della conoscenza di più lingue e di più arti, si unisce anche la fondamentale educazione alle arti marziali. L’universo alternativo di PPZ è, quindi, un mondo in cui la figura letargica dello zombie è una minaccia assimilata, conosciuta, persino evolutasi nel tempo. Ben lontana dal mostro “senza cervello” che ha spesso proposto la tradizione letteraria e cinematografica.


Questo tipo di esperimento non è affatto nuovo e la figura del non-morto è stata certamente sviscerata nel corso degli anni in qualsiasi maniera, e sotto ogni punto di vista. Piuttosto, ciò che rende l’opera di Steers interessante, almeno in un primo momento, è l’amalgama di elementi tratti da un immaginario collettivo incollato alla famelica - sempre mostruosa e virale come prima, ma incredibilmente scaltra e comunicante, a tal punto da confondersi con la popolazione umana - figura dello zombie: i personaggi di PPZ si muovono, difatti, all’interno di un mosaico di paesaggi che attingono tanto ai reboot disneyiani dell’ultimo periodo, quanto a The Walking Dead e Shaun of the Dead, stabilendo dinamiche tipiche della serialità tv e, ovviamente, del cinema vero e proprio. Le combattenti stesse (capeggiate da una Lily James straordinariamente somigliante alla austeniana Keira Knightley, ormai prototipica Liz Bennet di Joe Wright), dal look steampunk, si preparano riponendo nelle giarrettiere le proprie armi e affrontano il nemico muovendosi in gruppo e a rallenty in sequenze che non vagamente ricordano il tipo d’azione videludico caro a Snyder (vedasi Sucker Punch, in particolare), in una fortezza regale, sempre un po’ in penombra. Il film segue la formula “orgoglio + pregiudizio + zombie”, rispettandone l’ordine: vale a dire che il non-morto è davvero un elemento di sfondo e che soltanto sporadicamente s’introduce nella struttura compatta e romanzata che narra le vicende, specialmente amorose, fra i personaggi. È così che la conosciutissima storia della Austen riesce a rivelarsi imprevedibile grazie a una messinscena comica, mai forzatamente demenziale (e siamo comunque distanti dal brillante lavoro di Pegg e Wright per Shaun of the Dead, indiscusso portavoce del suddetto filone), relegando la componente orrorifica ed estranea a elemento marginale. Ed è quindi, logicamente, proprio quando l’elemento “accessorio” prende il sopravvento che il meccanismo sembra crollare e che la parodistica e mai volgare rivisitazione di un classico si traduce in un monocorde e infinito (nemmeno troppo sanguinoso) tutti-contro-tutti, in un finale fantasy poco epico, che ha del prevedibile e che sopprime la “vita” del film stesso, rendendolo un’opera “non-morta”.


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