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La memoria dell'acqua

28/04/2016 11:00

Federica Cremonini

Recensione Film,

La memoria dell'acqua

Un piccolo bottone di madreperla è incrostato su una rotaia in fondo all’oceano...

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Un piccolo bottone di madreperla è incrostato su una rotaia in fondo all’oceano. L’acqua è elemento su cui l’intera popolazione indigena dei Selknams aveva basato la propria vita, prima di essere trucidata dai colonizzatori. Sono queste le uniche impronte rimaste di due terrificanti stermini che hanno bagnato di sangue le bellissime terre della Patagonia, ora per sempre compromesse dalla sua violenza.


È grande quanto l’arcipelago della Patagonia, territorio ancora parzialmente inesplorato, la filmografia di Patricio Guzmàn. E nel modo in cui quelle terre strutturate e omogenee sorgono sull’oceano cobalto, la sua straordinaria compattezza ne fa un’opera che si può considerare un unicum sempre coerente con se stesso. Ogni volta che il maestro cileno aggiunge un tassello alla propria maestosa opera, si scorge qualcosa d’importante che ancora non era stato detto. Tutto era stato svelato, a proposito della dittatura di Pinochet e del sogno infranto di Allende, eppure si ha la sensazione che le parole e le immagini non siano mai abbastanza. Reduce dal meraviglioso Nostalgia de La Luz, ugualmente intento a disseppellire le atrocità del terribile regime di Pinochet in Cile e premiato a Berlino con l’Orso d’argento per la sceneggiatura, Guzmàn riprende la formula della metafora per trasformare il documentario in qualcosa di più: è con queste premesse che l’acqua diviene, più che assoluta protagonista, il fil rouge che connette la vastità di temi affrontati.


All’esiziale distesa di sabbia desertica, che caratterizzava la sua opera precedente, si sostituisce stavolta l’elemento naturale in grado di donare vita a tutte le cose; come il pensiero, liquido in grado di mutare la propria forma. Un elemento che, assorbendo l’energia delle stelle (ed è qui che, più che mai, si palesa il collegamento con Nostalgia de la Luz), si fa parte e condizione necessaria per la vita sul pianeta. Eppure, presente in tutto l’universo, non ne costituisce prerogativa unica. Guzmàn trova nell’acqua la metafora perfetta, mai forzata, per veicolare molteplici sottotesti: si passa dal microcosmo di una sola goccia - così simile al minuscolo bottone di madreperla che all’indigeno fuggiasco Jemmy Button costò la propria identità - a quel bottone rinvenuto su una rotaia arrugginita negli abissi, al macrocosmo della distesa di un oceano che nasconde mille segreti o, forse più, che ha cancellato tutte le tracce di un inaccettabile spargimento di sangue. L’acqua, quell’elemento che si rigenera tramite un infinito ciclo in cui si ritempra ogni volta di più, come il film di Guzmàn riesce perfettamente a incasellare ogni domanda in un’opera elegiaca che si aggrappa a più fili conduttori per fornire le sue risposte. Una materia fluida che tutto ingloba e assorbe, ma che, secondo Jacques Benveniste, è in grado di mantenere un ricordo a seconda delle sostanze con cui viene a contatto. Guzmàn, pertanto, adopera il mezzo documentaristico certamente a scopo divulgativo, ma la sua preoccupazione più grande è quella di muoversi nella sfera emotiva, per scuoterla e riportare alla luce non tanto (e non solo) il ricordo di un eccidio silenzioso ma soprattutto per restituire l’unica cosa che egli può donare e l‘ultima cosa che deve essere ancora restituita: la dignità perduta di ogni desaparecido, di ogni singolo corpo. Fosse pure egli senza nome.


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