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Frantz

07/09/2016 10:00

Federica Cremonini

Recensione Film,

Frantz

Con L’uomo che ho ucciso (Broken Lullaby), Ernst Lubitsch aveva, negli anni ’30, estrapolato il testo dell’opera teatrale L’homme que j’ai tué, di Maurice Rosta

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Con L’uomo che ho ucciso (Broken Lullaby), Ernst Lubitsch aveva, negli anni ’30, estrapolato il testo dell’opera teatrale L’homme que j’ai tué, di Maurice Rostand per adattarla al grande schermo. Ed è la stessa opera a costituire, oggi, le fondamenta del soggetto di Frantz, ultima opera di Francois Ozon in concorso alla 73esima mostra del cinema di Venezia. Siamo in Germania, la Grande Guerra è appena finita. Tutto ciò che ne resta è il compianto di chi è morto sul campo di battaglia e dei familiari, dei cari e degli amici che non ci sono più. Frantz è un giovanissimo soldato deceduto sul fronte francese, la cui tomba è adesso abbellita dai fiori che la sua Anna porta lì ogni giorno. Durante una di queste visite, però, Anna s’imbatte in Adrien, un ragazzo francese giunto da Parigi solo per ricordare l’amico tedesco deceduto e portare fiori alla sua lapide. Sebbene appaia un po’ goffo, il giovane è portatore di un delicato e fragile fascino ambiguo che attrae e, insieme, respinge Anna e la sua famiglia, che tuttavia trovano un rifugio temporaneo dal dolore per la scomparsa prematura dell’amato Frantz in ogni suo gesto e in tutti i ricordi che Adrien ravviva tramite le parole.


Ozon investe la città di un cinereo bianco e nero, unico filtro adatto a raffigurare la malinconica aria di lutto che impregna i luoghi che ancora echeggiano Frantz. Quando l’assente Frantz viene evocato con le parole, con la musica e l’arte a lui legata, improvvisamente alla scala di grigi del bianco e nero si sostituiscono tinte tenui e colori che irradiano gli spazi e i volti. Ozon rilegge, comunque, l’opera teatrale e quella di Lubitsch collocando la rivelazione del segreto di Adrien più in là nel racconto, a circa metà film, giocando sullo sviluppo delle relazioni fra i personaggi e su quello del loro stato psicologico più che sul senso di suspense hitchcockiana che caratterizzava le due fonti originali alla base dell’opera. Inoltre, v’è una rilettura del rapporto fra i due soldati, che il regista francese copre di terra e stringe in un sensuale abbraccio nella trincea: non si può non percepire una decisa tensione erotica fra i due uomini, sfumata sì nella tragedia della morte, ma anche reiterata grazie alla delineazione del rapporto (ugualmente sensuale) fra Anna e Adrien: la donna si fa, per l’uomo, surrogato di Frantz e questo, dal canto suo, potrebbe quindi essere specchio dei tempi che la guerra ha spazzato via. In tal modo, Adrien si scopre, per Anna e la sua famiglia, nientemeno che un doppio o uno spirito di Frantz, ingannevole (ma comunque seducente e confortante) canale di comunicazione fra passato e presente. Il mélo di Ozon guarda, quindi, verso il sottratto, focalizza sul defunto più che sul vivo, sullo svanito più che sul visibile, sull’assenza più che sulla presenza, sul passato come attimo perpetuo cui rimanere ancorati insieme. In un’epoca che tutto squarcia, separa e frattura, le anime rimaste vive sono unite tramite l’idea di morte, “joie de vivre” dipinta su tela che può ancora unire le persone.


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