Un viaggio nella psiche di Lars von Trier attraverso l'analisi di un film "manifesto": Melancholia
«Se sapessi spiegare me stesso a parole non avrei bisogno di fare film»
Per raccontare la poetica di Lars von Trier, controverso regista danese, bisogna necessariamente partire dalla sua biografia: nasce a Copenaghen il 30 aprile 1956 da genitori, tali Inger Høst ed Ulf Trier, nudisti e atei: il dogma dell’autodisciplina, dunque, è stato sin dalla giovinezza il punto fisso di Lars.
Altro episodio emblematico della vita di von Trier, che forse servirà a spiegare alcune sue dichiarazioni famose quanto discusse, è quello che lo vede protagonista di una sconvolgente scoperta: sul letto di morte della madre, gli viene confessato che il padre biologico non è Ulf Trier, ma è un tale Hartmann, un noto compositore danese. Da allora, Lars inizia a provare a mettersi in contatto con il vero padre, senza mai riuscirci. Si rende conto di non avere geni ebrei, ma tedeschi. Decide inoltre di aggiungere il titolo nobiliare “von” al suo nome in onore di suo nonno e perchè in preda a un’improvvisa “autovenerazione”, arrivando poi ad essere conosciuto da tutti come Lars von Trier.
«Mi auguro di deludere qualcuno tra i miei spettatori: credo che la delusione sia molto importante, se la si prova vuol dire che si avevano delle aspettative»
La personalità del giovane Lars, forse sempre per via delle vicende familiari particolari e dell’educazione libertaria che ha ricevuto, inizia a soffrire sempre più di enormi fobie, che vanno dall’aerofobia (paura di volare) alla talassofobia (fobia di annegare), e di disturbi come l’ipocondria e la depressione cronica. Tutto questo e tanto altro sarà d’aiuto per comprendere e “accettare” i film di Lars von Trier. Partiamo allora in questo viaggio nella psiche di von Trier e nei suoi film, ma con alcune avvertenze. Numero uno: sono film di Lars von Trier e questo dovrebbe bastare ad allontanare chi vuole assistere alla visione di film “normali” e chiunque abbia uno stomaco debole. Numero due: spesso i suoi film sono girati con camera a spalla, seguendo a tratti il Dogma 95 che egli stesso ha fondato, e perciò sono film che facilmente portano ad emicrania.
Melancholia: "spiegare" la depressione
«Il mio analista mi ha detto che nelle situazioni disperate, i depressi tendono a restare più calmi delle persone normali, perchè si aspettano sempre il peggio. Ma anche perchè non hanno niente da perdere»
Dopo un preambolo rivelatore, dalla grandissima potenza estetica ed evocativa sulla musica dell’ouverture del Tristano e Isotta di Wagner, il film si concentra, nel primo capitolo, sul matrimonio di Justine, interpretata da Kirsten Dunst. Justine è il perfetto alter ego femminile di von Trier, con tutte le sue “anormalità” e fobie.
Nel secondo capitolo, invece, l’attenzione è su Claire, interpretata da Charlotte Gainsbourg, ormai da considerarsi musa di von Trier, che è la sorella “normale” di Justine. Normale fino a quando la fine del mondo si avvicina per mano del pianeta Melancholia, pronto a distruggere la Terra. Iniziamo quindi il percorso per comprendere Lars von Trier dal titolo, che è poi il nome del pianeta in collisione con la terra, e da un accostamento forte e chiaro: Melancholia è un riferimento esplicito alla melanconia, da immaginare nel senso clinico del termine, ossia depressione psicotica, piuttosto che nel senso emozionale ed emotivo della parola.
Questa corrispondenza sottolinea chiaramente che, secondo von Trier la melancolia può essere considerata il male “supremo”, naturale e artificiale, accostabile a un cataclisma nel mondo. Il pianeta, e quindi forse il male di vivere, si avvicina; paradossalmente chi è in grado di sopportare tale verità sarà proprio Justine, a differenza di Claire che ama a tal punto la vita da essere terrorizzata all’idea di perderla. Parlare di Melancholia focalizzando l’attenzione solo su questo aspetto si rende necessario, per omaggiare uno dei lavori più apprezzati del regista danese, datato 2011.