Una carriera ventennale, con tanto di ampia parentesi all'estero, quella di Gabriele Muccino: un autore che ha dimostrato di dominare lo strumento cinematografico meglio di tanti altri
La prima cosa che balza in mente al nome Gabriele Muccino è la frase di quel tale che una volta disse: «L'autore è un regista che non ce l'ha fatta». Dotato come pochi e come pochi bistrattato, Muccino è da dieci anni bersaglio di uno snobismo di massa proveniente non soltanto dalla cosiddetta critica, ma anche da un certo tipo di spettatore. Primo della fila è quello che non resiste al piacere doppio di vedere il film e dirne male; segue a ruota quello che ne parla male a priori, confondendolo forse con Moccia per l'assonanza. Vengono poi tutti gli altri, compresi quei tanti che fortunatamente (e miracolosamente) riempiono le sale. Tanto è scontato il successo di pubblico per film che parlano facile, tanto è inspiegabile la miopia nei confronti di uno dei migliori registi che abbiamo, nel senso stretto del termine. Una carriera ventennale nella quale si è aperta un'ampia parentesi all'estero, dove Muccino ha dimostrato di dominare il cinema all'americana meglio di tanti altri. Per una duplice ragione.
Della prima si è appena accennato: senza voler essere per forza Autore, ha fatto per certi versi di più riuscendo come regista; basti pensare all'esempio di un nome importante come Paolo Sorrentino, che nell'esperienza all'estero (con This must be the place) ha fallito proprio per le sue ambizioni d'autore. La seconda ragione testimonia la totale padronanza del mestiere e la capacità di mettersi al servizio di un certo cinema, che è quello commerciale per vocazione. Ecco allora che le pellicole americane, che risultano le più anonime e anche le meno riuscite nella sua filmografia (ma Alla ricerca della felicità meriterebbe un occhio di riguardo, che per la verità gli è stato concesso), sono in realtà proprio ciò che volevano essere: film americani per il grande pubblico girati da un grande regista, che si è concentrato a filmare e ha rinunciato a firmare.
Fuori da questa parentesi, c'è un prima e un dopo: il primo Muccino, quello che ha imposto il marchio ed è stato (fino a un certo punto) anche apprezzato. E il secondo (in realtà identico al primo), che avrebbe riproposto quel marchio esportato all'estero ormai logoro e demodè. Certo si fa fatica a perdonare il successo a qualcuno dei nostri, ma il nome Muccino deve suonare poco simpatico se in passato si è stati orgogliosi degli Oscar a colleghi che non avevano tutti questi numeri in più: Gabriele Salvatores, Giuseppe Tornatore, Roberto Benigni.
È targato 1998 l'esordio di Gabriele Muccino con Ecco fatto, film acerbo come il suo giovane protagonista, un Giorgio Pasotti che porta il suo accento bergamasco a litigare con quello della fidanzata slovena (Barbora Bobulova). C'è già dentro tutto il mondo di Muccino, a partire dal tema della gelosia, vera ossessione del regista che in questa opera prima spinge il protagonista dentro un inferno chabroliano (sul tema del tradimento nella tradizione della nostra commedia ci sarebbe da aprire una parentesi troppo lunga). Con un'aria un po' amatoriale un po' da film di Pupi Avati, Ecco Fatto è una prova generale del cinema che farà, nei contenuti ma anche nelle forme: le musiche ingombranti (ma qui anche una Volver molto prima di Almodovar), il montaggio frenetico, le ampie panoramiche. E un'ultima sequenza che è da manuale.
Resta tra i giovanissimi anche Come te nessuno mai: film che corre dentro e fuori una scuola durante un'occupazione studentesca con Muccino sempre addosso ai suoi, guidati tra una carica della polizia e un bacio tra lenzuola stese in terrazza. Ci sono l'ambiente scolastico, le ribellioni, gli scontri generazionali (come anche in altre pellicole di quegli anni: La scuola, Ovosodo, Tutti giù per terra) ma Muccino spinge tutto sul fronte sentimentale, perché il suo cinema sta soprattutto là.
Film di insicurezze e adrenalina, facile ma non banale, Come te nessuno mai è un piccolo cult nel suo genere.
“Mucciniano” per eccellenza già dal titolo, L'ultimo bacio consacra il corrispondente aggettivo (quasi sempre spregiativo) e quel modo di fare cinema che è piaciuto comunque così tanto da farsene delle copie. Recitatissimo e urlato, in grado di seminare spunti dai quali usciranno numerosi blockbuster e fiction televisive. Un esempio dei primi, i telefoni cellulari spesso spenti (uno dei clichè di Muccino) su cui verrà costruito quel grandissimo successo che è stato Perfetti sconosciuti di Paolo Genovese. Delle serie tv, anche quelle sui teenager che venivano dagli USA, c'è invece la matrice che sembra simile.
Ma i film di Muccino sono tutt'altro che televisivi, hanno bisogno che gli spettatori vadano al cinema come si faceva un tempo: per vedere un bacio sul grande schermo o per scambiarsene uno al buio di una sala.
Spettatori tutti coinvolti, che lo vogliano o meno, e costretti a reagire: perché il bacio è benvenuto nella tipica commedia romantica (meglio se in lingua inglese), dove i patti erano chiari fin da subito, ma disturba se poi i protagonisti vengono smascherati e la favola rovinata. Ecco allora il fastidio, soprattutto quando ci si rivede un po' troppo e si ha la sensazione di essere spiati dentro casa; non resta quindi che scherzarci sopra, smontare, prendere le distanze. Insopportabile come una crisi d'ansia, molesto come un amico ubriaco, imbarazzante come delle effusioni in pubblico: L'ultimo bacio è anche questo, ma non poteva fare altrimenti.
Alza il tiro e moltiplica le facce con il successivo Ricordati di me, una delle sue opere più riuscite. Film corale e teatrale fatto tutto di parti e non ce n'è una fuori posto: Muccino spreme ogni suo personaggio finchè non ne esce il grande attore, compresi Pietro Taricone (quel Pietro Taricone), Monica Bellucci (recita bene? Sì, recita bene) e il fratello minore Silvio nella sua ultima partecipazione.
Seguono due pellicole americane con Will Smith come protagonista (La ricerca della felicità e Sette anime) e un rientro in patria con l'ipotetico sequel de L'ultimo bacio intitolato, con spiazzante ovvietà, Baciami ancora: ritornano i suoi personaggi, ritorna il suo campionario. Di nuovo un'ottima prova d'attore per tutti, compreso il solito Pierfrancesco Favino, che ha qui alcune battute di amara comicità quasi alla Monicelli (come quando al telefono con la moglie sente l'amante al pianoforte e le grida «Chi è che suona a quest'ora di notte!»). Bello il personaggio tutto francese di Valeria Bruni Tedeschi (come lo era quello di Monica Bellucci, e in entrambi i film c'è un classico della canzone francese) ma francese è anche l'aria di alcune sequenze: senza citazioni ingombranti, quanto piuttosto affinità con un suo equivalente come Cédric Klapish (quello di L'appartamento spagnolo o del delizioso Ognuno cerca il suo gatto con la corsa nel finale). Ma c'è anche un po' della miglior scuola americana nei momenti corali e musicati in stile Magnolia di P.T Anderson (senza fare tra i due confronti che non potrebbero reggere): uno per tutti il montaggio che infila tutti i personaggi, compreso quello dentro una macchina sotto la pioggia (ricordate Julianne Moore?).
Sono girati negli Stati Uniti anche i successivi Quello che so sull'amore e Padri e figlie mentre rappresenta uno dei lavori più deboli L'estate addosso, dove addosso rimane anche la maniera americana che fatica a conciliarsi spontaneamente con i protagonisti del film (un po' come faticava il My name is Tanino di Paolo Virzì). Resta comunque un film con una leggerezza da Racconti di San Francisco (quelli di Armistead Maupin), fatto di ventenni alla ricerca di una felicità (leitmotiv dei film di Muccino) che contagia un po' anche chi guarda: non avrebbe dunque senso pretendere più intelligenza di quanta debba averne. Segue A casa tutti bene, film nuovamente corale e solido anche nella sceneggiatura, che costringe tutti i membri di una famiglia a confrontarsi oltre il tempo limite previsto dal festeggiamento, facendo così saltare il solito tappo.
Un altro esempio di commedia sentimentale amara, dal ritmo frenetico ma guidata con la consueta maestria, perché Muccino è sempre impeccabile nella gestione dei tempi e degli spazi.
Con il suo ultimo lavoro gioca ancora con il tempo e con quello che combina alle relazioni, ripetendo più se stesso che l'Ettore Scola di C'eravamo tanto amati: Gli anni più belli copre infatti quarant'anni di vita dei protagonisti, provando in un colpo solo quello che era stato fatto con i due film “dei baci”. Qualche vezzo di troppo per una pellicola non indimenticabile (d'altronde nessuna delle sue lo è) ma capace di rapire lo spettatore come sempre.
Si compiace forse della sua bravura a girare ma anche stavolta non gioca a fare l'autore: regista della mediocrità ma non mediocre, meno profondo di altri ma sempre efficace, Gabriele Muccino si muove sul set come un direttore d'orchestra che conosce a menadito la partitura.
La musica orchestrata, le corse a perdifiato, la pioggia forte, ci sono naturalmente tutti gli stereotipi del cinema romantico: regista dei baci, dei rapporti tra padri e figli, della ricerca della felicità, Muccino parla chiaro fin dai suoi titoli. Centrati sempre sulle figure maschili, ma a ben guardare ad uscirne male è proprio l'uomo: più debole, più immaturo, più meschino. Via così al repertorio riprovevole ma piuttosto comune delle offese, degli urli, dei pianti, dei ripensamenti, delle scuse, del fare branco con gli amici. Si ama o si odia Muccino: coerente, sincero e appassionato ma anche convulso, invadente e senza mezze misure. Prendere o lasciare, proprio come nei momenti della vita che i suoi film raccontano.